Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog
Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

mercoledì 18 dicembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 3. Sala d'Aspetto

La Solitudine è una condizione dell’anima che prescinde dal tempo, dallo spazio e dalle relazioni interpersonali. E’ una scelta esistenziale, che trova realizzazione in qualsiasi contesto. Può nascondersi sotto l’apparenza di una socialità mista a condivisione, ma di fatto, tra le righe, sotto i sorrisi e le mani strette, è sempre presente, come una veste di seta leggera che protegge e copre il corpo, preservandolo dalle inquietudini della vita.
C’è chi la considera una forma di autodifesa dal mondo, dalle possibili sofferenze che scaturiscono dall'interazione con gli altri uomini e dallo spettro che ci portiamo dietro sin dai tempi del Paradiso Terrestre: lo spettro dell’abbandono. E allora il timore di essere abbandonati ci trasforma da vittime a carnefici: siamo noi ad abbandonare, per scacciare via quel fantasma orribile, per allontanare da noi la possibilità di rimanere soli, soli a noi stessi. E quanto male seminiamo, in questo sforzo autodistruttivo di preservazione da una presunta sofferenza. Per non sperimentare sulla nostra pelle quel male, lo spargiamo sulla terra, lasciando crescere piante marce e virali. Siamo più codardi di quanto vogliamo ammettere. E la solitudine è la condizione per eccellenza del codardo, colui che sfugge dalla varietà della vita per rifugiarsi nella costante, banale, sempre uguale quotidianità.
Non c’è ruolo più meschino di chi sceglie la via dell’inettitudine.
“Non ragionam di lor, ma guarda e passa”
Il coraggio è il portabandiera di chi lotta per la vita.

Pensava così tanto a qual era il modo giusto di vivere, che non si rendeva conto del tempo che passava..


Era un venerdì pomeriggio quando la madre di Emma le chiese di accompagnarla dal dottore. Dopo aver valutato analiticamente la gamma di scuse che avrebbe potuto imbastire, e non avendone trovata una accettabile (né dalla madre né dal suo buon senso), Emma acconsentì suo malgrado, poiché andare dal dottore era un impegno che avversava in modo particolare. E questa avversione aveva basi scientifiche, perché frutto di due riflessioni fondamentali:
1) la sala d’aspetto del dottore era quasi sempre animata da personaggi insoliti e straordinariamente sgarbati. Talmente insoliti e sgarbati da convincerla a formulare una teoria originale sul legame esistente tra la malattia e l’antipatia.
In poche parole, Emma credeva che tutti i malati fossero naturalmente propensi all'antipatia e che, viceversa, tutti gli antipatici fossero in qualche modo malati. Anzi, riteneva che la malattia più grave del secolo fosse proprio l’antipatia. E la sala d’aspetto del dottore era un microcosmo di malati di antipatia, un atomo di odio e irritazione, un accozzaglia di spiacevoli tipi umani: inspiegabilmente, infatti, quasi tutti gli abitanti del mondo della sala d’aspetto erano adirati con l’umanità intera, anche con l’innocua vecchietta seduta in fondo alla sala (c’è sempre un’innocua vecchietta seduta da qualche parte, una figura omerica: non vede, non sente e non dice), più interessata a leggere l’ultimo scoop sull'edizione ventura di Sanremo, che a occuparsi di quei seminatori di zizzania (sebbene forse la sua indifferenza fosse dovuta maggiormente a un certo difetto d’udito). Erano così incazzati a priori da provocare dispute su qualsiasi cosa: dal posto in cui pretendevano di sedersi, al giornale che pretendevano di leggere, alla visita che pretendevano di fare prima di tutti. Tutte pretese, a loro avviso, legittimate dalla loro appartenenza al Mondo dell’Antipatia.
Possedevano anche un linguaggio caratteristico, grazie al quale comunicavano tra loro, che si fondava esclusivamente su grugniti e suoni disarticolati, accompagnati da gesti di stizza fortemente teatrali, che suscitavano l’imbarazzo generale del pubblico della sala d’aspetto: unico esito possibile di uno spettacolo grottesco allestito da una compagnia di idioti;
2) dal dottore toccava con mano il concetto di attesa. Un concetto che, per tentare di razionalizzarlo, Emma aveva consumato fogli e giornate.

Che cos'è aspettare?
Attesa.
Un tempo sospeso. Un tempo che cerchiamo di colmare con attività che rendano quest'attesa meno trepidante e impaziente. E' un desiderio. Attendiamo per colmare una mancanza.
Mera necessità di colmare un vuoto, una voragine.
Ad esempio la notte andiamo a dormire.
Dormire è aspettare di svegliarsi. La notte passa senza accorgercene. Ci alziamo, facciamo colazione. Aspettiamo che esca il caffè. E in quegli istanti accavallati che intercorrono tra il momento in cui mettiamo la caffettiera sul fornello e il momento in cui versiamo il caffè nella tazzina, noi non facciamo altro che aspettare. Non importa cosa attendiamo, non importa quanto sia importante l'oggetto o la persona per cui indugiamo. Siamo lì, fermi, incuranti del tempo che passa, delle lancette che scorrono inesorabili a fagocitare un altro giro d’orologio. Desideriamo completarci.
Quel caffè, una volta uscito, ci aiuterà a comprendere tutto e darà un significato ultimo a tutte le attese della nostra vita. Che illusione.
Aspettare. Essere pazienti. Chi è paziente, aspetta. In sala d'aspetto, si aspetta. Si aspetta di essere visitati, di essere curati. Forse per questo nelle sale d’aspetto le persone sono così impazienti.
Se accumulassimo tutti i minuti, i giorni, le ore, gli anni passati ad aspettare qualcosa o qualcuno, avremmo la possibilità di vivere un'altra vita.
Di amare qualcun altro.
Di amarci un po' di più.

Aspettare è l'illusione di sospendere la vita.
E la vita è tutto ciò che accade mentre noi continuiamo ostinatamente ad aspettare.

sabato 14 dicembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 2. Vivere

Amava vivere in quella casa, una villetta indipendente in un paese lontano dalla frenesia della città. Riconosceva come suo l'ambiente naturale in cui era immersa, trovando piacere e conforto nell'incessante canto degli uccelli che al mattino la svegliavano, iniziandola alla giornata con le loro armonie sempre varie, o nel lento strisciare del vento che muoveva le foglie voluminose del ciliegio.
Sin da piccola coglieva il significato nascosto in quella vita appartata, idilliaca, in cui la natura e l'amore della sua famiglia costituivano le solide fondamenta sopra le quali formare il suo spirito e la sua personalità.

Non avrebbe saputo immaginare un’esistenza diversa da quella, ma il futuro era per lei un grande calderone di incertezze e interrogativi.
Si svegliava ogni mattina con la convinzione fittizia che sarebbe stato sempre quello il suo unico risveglio.
Forse era paura, la sua.
Paura del mondo contaminato dalla falsità.

Conclusi gli anni della scuola media, fu costretta a proseguire i suoi studi in città. Ogni mattina, alle sette, partiva col padre per andare a scuola.
Ritratto di vita. Il profumo di caffè latte appena fatto, la madre che spalanca le persiane e i raggi del sole che inondano di luce ogni angolo della cameretta, disturbando i suoi occhi affaticati dal sonno. Comincia un altro giorno. Emma si alza, si veste, si lava e fa colazione. Suo padre è in macchina che la attende. Cartella in spalla e si parte. Dal finestrino il suo sguardo curioso osserva i paesaggi conosciuti: luci, colori, alberi, personaggi, sono sempre gli stessi, ma con un giorno in più da sommare alla vita. C’è sempre la stessa vecchietta che attende l’autobus sul ciglio della strada e c’è sempre il pensiero che “certo! sarebbe meglio se mettessero delle panchine per le persone che aspettano”. Del resto la vita è soprattutto attesa. Tanto vale stare comodi.
Anche la strada è sempre la stessa, con le sue buche e i suoi dossi...e il rumore prevedibile dei tombini calpestati dalle ruote che girano.
E girano.


Le persone sembrano voler dimenticare quanto sia fragile la vita.
La verità è che un uomo, un uomo qualsiasi, può spegnersi e affliggersi di fronte alla quotidianità, all'incessante e circolare ripetersi di azioni ed emozioni, al punto tale da svalutare lo stesso concetto di esistenza.
Alcuni ci riflettono, altri se ne vogliono dimenticare. E certamente quest’ultimo atteggiamento non è da biasimare, dal momento che tante menti geniali giunsero alla conclusione che la mancanza di consapevolezza può esorcizzare l’infelicità. Un po’  come accade negli animali.
Elizabeth conosceva bene queste filosofie, se ne appropriava e si perdeva nella loro indeterminatezza.
Percorreva vie che il reale avrebbe voluto precluderle.
Scrutava il mondo in cerca di sé. Passeggiava per strada e osservava le case, e delle case osservava le finestre, e tra tutte le finestre si soffermava su quelle con le luci accese, mentre con la mente cercava di immaginare quale vita stesse animando quelle stanze illuminate: quale famiglia stesse mangiando a tavola, quale donna stesse aspettando che il suo uomo tornasse dal lavoro, quale nonna stesse guardando le foto del suo defunto marito. In macchina si chiedeva dove corressero, dove andassero sempre tutte quelle scatole a quattro ruote, quali e quante vite trasportassero. E quando vedeva un autobus passare, il filo dei suoi pensieri si intrecciava a tal punto che nemmeno lei riusciva a trovarne un senso. Quante esistenze che si muovevano dentro un unico mezzo di trasporto, quanti bambini andavano a scuola, quante madri a fare la spesa, quanti uomini a lavoro e quanti giovani all'università, con il quaderno degli appunti in mano e la tracolla sulla spalla. Cosa muoveva tutte quelle vite umane? Dove andavano, cosa cercavano tutti, incessantemente? Cosa li spingeva a vivere consapevoli dell’insensatezza di vivere?
Poi un uomo.
Seduto su una panchina.
Un girasole in mano.
Arriva una donna.
Lo abbraccia.
Lo bacia.
Lui le porge il girasole.
Lei sorride, lo prende per mano.
Vanno via.
La luce dei lampioni sembra illuminare i loro volti.

Lì, in quel preciso istante… la vita scrive la sua più segreta poesia.

Andava a scuola come tutti i ragazzi della sua età. Inseguiva sogni, come tutti. Amava, come tutti.
E nel frattempo sperava di riuscire un giorno a sfuggire dall'ombra opprimente dell’anonimato, della mediocrità, dell’abitudine.
Così fuggì, fuggì dal piccolo mondo in cui era nata e cresciuta.

Fuggì nella grande città.

martedì 19 novembre 2013

Preghiera

Se potessi prostrarmi ai piedi
dell'universale creatore
una sola preghiera alzerei:
che'l mondo, nella sua interezza,
diventasse tempio sacro
dell'anima umana e del cuore.
Che l'indegno macigno dell'uomo,
chiamato materia,
marcisse dinnanzi al
levarsi della primavera,
trionfo ancestrale di spirito e vita.
Professo la fede dell'uomo novello
sdegnoso dell'ombra del grattacielo
incurante del tuono rombante
che scuote la terra ormai grigia.

sabato 12 ottobre 2013

Sala d'aspetto

Il tedio. Quella cosa che ci fa credere che aspettare di vivere sia meglio che vivere davvero.
Aspettare.
Ma che cos'è aspettare?

Salvador Dalì. La Persistenza della Memoria

E' un tempo sospeso. Un tempo che cerchiamo di colmare con attività che rendano quest'attesa meno trepidante e impaziente. E' un desiderio. In inglese il verbo "to wait" è accompagnato dalla preposizione "for". Waiting for: letteralmente "aspettare per". "Per" colmare un desiderio, una mancanza.
L'attesa è la necessità di colmare un vuoto, una voragine.
Ad esempio. La notte andiamo a dormire.
Dormire è aspettare di svegliarsi. La notte passa senza accorgercene. Ci alziamo, facciamo colazione. Aspettiamo che esca il caffè. E in quegli istanti accavallati che intercorrono tra il momento in cui mettiamo la caffettiera sul fornello e il momento in cui versiamo il caffè nella tazzina, noi non facciamo altro che aspettare. Non importa cosa attendiamo, non importa quanto sia importante l'oggetto o la persona per cui indugiamo. Siamo lì, fermi, incuranti del tempo che passa, delle lancette che scorrono inesorabili a fagocitare un altro giro. Desideriamo completarci.
Quel caffè, una volta uscito, ci aiuterà a comprendere tutto e darà un significato ultimo a tutte le attese della nostra vita.
Aspettare. Essere pazienti. Chi è paziente, aspetta. In sala d'aspetto, si aspetta. Si aspetta di essere visitati, di essere curati.
Se accumulassimo tutti i minuti, i giorni, le ore, gli anni passati ad aspettare qualcosa o qualcuno, avremmo la possibilità di vivere un'altra vita.
Di amare qualcun altro.
Di amarci un po' di più.

Aspettare è l'illusione di sospendere la vita.
E la vita è tutto ciò che accade mentre noi continuiamo imperterriti ad aspettare.

martedì 17 settembre 2013

Patior

In un deserto d'apatia non c'è luce
che sveli al cuore mio l'enigma nero
piantato nei tuoi occhi come una croce
tra falsità impietose e briciole di vero.

Non più parole solo silenzi stanchi
nel vuoto urlato d'un tempo già sospeso:
solo ricordi dei tuoi migliori anni
a riscaldare uno spirito indifeso.

Gridasti al vento d'esser folle d'amore
e il mare accolse le pene del rifiuto,
ma non c'è pace per un fresco dolore

seppure preghi per ottenere aiuto.
Ora negli occhi soltanto quell'orrore
che rese il battito del cuore un suono muto.

Aristotele

Consegniamo la nostra vita nelle mani degli altri. Come se la felicità fosse un qualcosa di estrinseco, di alieno, indipendente da noi e dalla nostra volontà. Ma come tutte le cose che appartengono alla nostra natura e la caratterizzano, la felicità è ontologica, determina la nostra essenza, il nostro spirito. E' una scintilla dell'anima, un motore del nostro intimo e personale universo.
E' una scelta che determina la nostra esistenza.
Soltanto quando l'Io realizza compiutamente sé stesso, è in grado di porsi in relazione con l'altro, con il Tu, senza perdere la propria identità.

Conoscere sé stessi ed essere consapevoli che l'attuazione (il passaggio dalla potenza all'atto) della nostra felicità è frutto delle nostre e non delle altrui scelte: questo è realizzarsi veramente.

Raffaello Sanzio. La Scuola di Atene

domenica 15 settembre 2013

Emma - Il sogno è lo spazio dell'Anima

Fiori di primavera nell'aria, ma è ancora settembre.
L'estate è ormai finita e la spiaggia, pallida e stanca, attende con ansia il lungo riposo invernale, mentre i gabbiani assaporano finalmente la libertà di affondare le esili zampe sulla sua morbida superficie, ormai libera dalla confusione estiva.
Le onde del mare, divertite, sembrano schernire l'ironico destino degli uomini, costretti ad oscillare tra i contrasti dell'esistenza, in un continuo e incessante moto armonico spesso ostacolato e ravvivato dallo scoglio inevitabile dell'amore. Al di sopra di quella sconfinata distesa l'orizzonte si erge prepotente, scandito dal contorno sfumato delle barche che tornano al porto dopo una lunga giornata di pesca, cariche del premio della loro guerra perpetua contro la natura.
Il sole è ormai calato: come un premuroso seminatore che cosparge la sua terra di semi fecondi e dorati, così quel disco infuocato, fonte inesauribile di vita, semina gemme e diamanti sull'acqua sua gemella, e una striscia brillante, eterna e infinita, taglia a metà l'immensa distesa del mare.
Emma come ogni sera si abbandona docilmente a questo trionfo di vita: è il suo appuntamento quotidiano, irrinunciabile. In quei momenti avverte il suo spirito romantico e sognatore, e si lascia cullare dallo splendore dei colori che si confondono tra il cielo e il mare, dalla placida calma con cui la spiaggia la sera la accompagna nelle sue tenere fantasie: si scioglie nel tempo come una candela accesa nell'aria, si perde tra i colori, in quel senso di sgomento e impotenza che il mare evoca grandioso nell'anima. I suoni artificiali della città giungono sordi alle sue orecchie: ormai la musica che la accompagna è quella delle tonalità delicate del cielo, che creano melodie sempre nuove e inaspettate. Poi scende la notte ed è come un velo incantato che avvolge e accarezza nuvole e case, si sofferma a definire i contorni, nasconde le ombre, risveglia quei desideri e quelle verità celate invece dalla chiara luce del sole. La notte è guardiana del cuore, addormenta il corpo stanco e sveglia l'anima indomabile, trascurata e soppressa durante le affannose ore del giorno. "Siamo io e me", Emma parla a se stessa, "non posso nascondermi di fronte alla notte. Lei sa chi sono, non posso nascondermi". Conosce le sue paure, le debolezze, i suoi peccati. Sa chi ama e chi desidera, sa cosa le manca, afferra i suoi sogni e li rende reali nel tempo di un sospiro, di un sonno, di un tremito inconscio. Non può nascondersi,
di notte.
Si adagia sulla spiaggia e con delicatezza accarezza la sabbia, come se ne volesse coccolare ogni singolo granello. La notte ha ormai nascosto ogni forma e un silenzio denso scende a ricoprire l'intera città. Qua e là dalle finestre è possibile scorgere delle luci ancora accese, simili a lucciole immobili e solitarie. Il sonno prende il posto della veglia, il corpo riposa e l'anima si eleva a protagonista del mondo dei sogni, scrigno dei desideri più nascosti. Gli amori celati prendono vita, gli odi repressi prendono forma e le distanze si accorciano. Emma ascolta il ritmo del suo cuore e gli intervalli del suo respiro, si allunga e poggia la testa a terra: i suoi capelli prendono possesso della sabbia circostante e il suo corpo la modella per trovare un nido pronto ad accogliere le sue membra stanche. Il vento corre leggiadro e l'aria, non più estiva, genera in lei brividi leggeri; pochi istanti ancora, poi le palpebre cominciano a cedere: la bocca è socchiusa e le mani vinte dal loro stesso peso si abbandonano al riposo. Un ultimo respiro, profondo e reale, si insinua nelle pareti del naso, scende giù accarezzando la gola, bacia i polmoni e infine, caldo, abbraccia e avvolge il cuore, appesantito dal dolore dei giorni.

Vicente Romero. La Cantastorie

Labile è il confine tra sogno e realtà..è impercettibile come i sussurri degli amanti, graduale come la fine di un amore. Ma nel sogno l'anima è libera, può uscire dal corpo e prendere vita, mutare come il tempo che fugge, percorrere vie che il reale preclude, seguire l'andamento tortuoso e imprevedibile della fantasia.
Vola lontano il suo spirito, compresso dal banale circolo degli eventi, e coraggioso si affanna nel cercare e sperare l'invisibile, si eleva e guarda il cielo con occhio ingenuo e carico di aspettative, scruta le nuvole, ostacolo alla vista e allo stesso tempo fonte di una necessità ancora più viva di ricerca, di viaggio, di evasione nell'oltre..
Nel sogno Emma esprime e realizza le sue voglie più nascoste. Ha un potere raro: grazie a un dono innato le è concesso rivivere gli amori passati, sublimarli, trasformarli fino a renderli perfetti, unici, ideali; oppure può viverne di nuovi, sperimentando le passioni più estenuanti, vivendo attimi eterni. La realtà è a lei nemica, scoraggia i suoi istinti più puri; i volti della gente sono a lei estranei, spengono le fiamme divampanti delle sue emozioni. Non ha senso cercare nel mondo quello che nessuno ha mai trovato.
E Emma conosce bene la realtà, ne ha passato in rassegna ogni singolo aspetto , ogni sfaccettatura, per potervi trovare un po’ di sé: ma quello che ha visto è solo buio, oscurità, solitudine. La realtà è alienante, ti costringe a partecipare ai suoi meccanismi, ai suoi banali giochi e poi ti lascia da sola, con in mano un pugno di niente.
Così chiude gli occhi, dispiega l'anima e si esilia dal mondo. Pian piano si abbandona alle dolci carezze del sogno e i tremiti inconsci dell'anima la attraversano, denudandola, lasciandola sola con le sue debolezze e le sue speranze.

sabato 14 settembre 2013

Life Bites - L'Essenziale

Un giorno mio padre decise di parlarmi. Mi fece sedere sul tappeto accanto al camino. Incominciò ad attizzare il fuoco e in pochi minuti le fiamme, prima flebili poi sempre più impetuose, gli illuminarono il viso. Alla vista di quel modesto spettacolo pirotecnico le sue rughe si piegarono in un sorriso. Mio padre amava la semplicità della natura ed era affascinato dalle sue forze interne. Si sedette sulla sedia e mi parlò così: "Piccola mia, il desiderio più grande di un padre è quello di entrare nel cuore della propria figlia per lasciarle un segno indelebile e duraturo. Anche da lontano io mi prendo sempre cura di te. Cerco di conoscerti perché per un padre nulla è più incomprensibile e misterioso della creatura che ha generato. Tu amore mio ami osservare il mondo. Lo vedo. Hai degli occhi così profondi che io stesso mi perdo in essi ogni volta che tento di interpretarli. So che cosa cerchi ogni volta, so che cosa tu indaghi nelle cose e nelle persone. Tu vuoi la verità, tu vuoi arrivare al nucleo del mondo, all'essenza dell'universo, al motore della vita. E speri che l'osservazione ti possa aiutare a penetrare i segreti più reconditi dell'esistenza. Ma ciò che tu cerchi non è parte di questa terra. L'ansia di verità che nutri nella tua anima non potrà essere soddisfatta da ciò che è al di fuori di te. Non affannarti dietro a falsi profeti che fanno sfoggio delle loro filosofie.
L'unica verità conoscibile è quella del cuore."

giovedì 12 settembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 1. Intersezioni

Sottoporre l'intera umanità a un rigido codice morale.
Questo Elizabeth aveva imparato sin da bambina.
Costruire uno schema mentale di comportamento e in base a questo giudicare ogni essere vivente, chiunque intendesse anche solo avvicinarsi per scambiare due parole, magari per parlare del tempo o dell'inefficienza dei mezzi di trasporto. Ma per lei tutto ciò era vagamente retorico, fuorviante, trascurabile. Una pianura di banalità e piattume in cui non c'era spazio per la verità né per l'essenza vera di quell'ideale astratto di umanità che perseguiva. Il suo rigido atteggiamento nei confronti dell'altro aveva l'inevitabile conseguenza di abbandonarla a uno stato perenne di solitudine, dove i libri e lo studio sembravano essere le uniche ancore di salvezza in mezzo a un mare di superficialità.
Non fuggiva dal gruppo, riusciva anzi a costruire un'immagine di sé stessa accettabile e piacevole agli occhi degli altri, sforzandosi in tutti i modi di trovarsi a suo agio. Ma nella compagnia percepiva un'indefinibile sensazione di inadeguatezza, di assenza totale dal mondo reale; un ottundimento che la sganciava dalla concretezza per condurla sulle ali di una realtà immaginaria e inafferrabile.
Punto.

"Emma scendi!".
"Arrivo mamma".
"Sono tre ore che ti dico di scendere".
"Lo so, stavo facendo. Dimmi: cosa c'è?".
"Togli i panni dalla lavatrice e stendili fuori.".
"Ma perché sempre io?".
"Su! non fare storie che ho da fare".
Dopo aver tentato un'ultima resistenza, Emma risale le scale sbuffando come un vecchio treno a vapore. Spalanca l'oblò della lavatrice con un gesto ormai meccanico e si inoltra nel mondo variopinto della biancheria, ripensando a tutte le volte in cui si era ritrovata lì, in quel punto esatto, di fronte a quel noioso elettrodomestico che attendeva di essere svuotato proprio da lei per poi ricominciare, ancora una volta, a girare.
A girare.

La cultura le aveva aperto prospettive che mai prima di allora aveva sperimentato. L'orizzonte della conoscenza si ampliava con tale rapidità che ogni volta che giungeva a una nuova acquisizione, ecco che una molteplicità di altre possibili conoscenze le si proponeva dinnanzi agli occhi, turbandola al punto tale da vagheggiare l'idea dell'inutilità dell'apprendimento. Era la ripetizione infinita e inesauribile dell'atto di imparare che la spaventava: come quei gesti che le madri sono solite fare e rifare fino a sera, giorno dopo giorno, senza che mai il loro lavoro giunga a una conclusione definitiva.
Elizabeth apriva l'oblò del mondo, e all'interno di esso scovava una moltitudine di possibilità dentro cui le appariva inevitabile smarrirsi.
Il mare di fronte ai suo occhi e lei...lei un granello di sabbia.
Nel suo quaderno di poesie dalle pagine ingiallite, scrigno delle sue intime verità, scriveva:

Sostengo
l'intollerante peso
di questa ignoranza
quando l'universo
della conoscenza
diventa schiacciante
infinità
di molteplici possibilità
impossibili
da possedere
per mani che stringono
frammenti di briciole
d'impalpabile immensità.
Oscura verità
che lacera l'animo inquieto
dei figli di Ulisse.

A girare.

Si perdeva nelle sue riflessioni.
Elizabeth.
Dolce, Elizabeth.
Smarrita, persa e ritrovata, nella sua poesia.
Leggera, Elizabeth, come una foglia che l'autunno abbandona sul terreno umido.
Cercava risposte e trovava domande. Imparava e pretendeva di sapere ancora, ancora di più. Si sentiva impotente, incapace di dare una definizione ultima alla sua sete di sapere.
Insoddisfatta, Elizabeth.
Questo mondo non ti appartiene.

Ad essere precisi, ogni giorno sua madre avviava la bellezza di quattro lavatrici, tre volte metteva il caffè sul fornello, almeno due caricava la lavastoviglie. Moltiplicando per 365 giorni, si ottiene l’esorbitante cifra di 1460 cestelli riempiti e svuotati, 1095 caffettiere da lavare e 730 giri di piatti, forchette, padelle e coperchi perfettamente lavati e sgrassati.
SI svegliava al mattino e iniziava il suo ciclo rituale: puliva, preparava, spolverava, lucidava, sistemava, smacchiava , cucinava. Un lavoro a tempo pieno senza retribuzione. L’unico compenso, che non chiedeva apertamente ma in cuor suo sperava e invocava, era un poco d’amore.
Il suo lento muoversi da una stanza all’altra aveva un non so che di magico e sacro e al tramonto la luce macchiata di rosso che filtrava dalle finestre investiva la sua figura, irradiandola di un’energia quasi celeste: nell’atto di piegare i panni, Emma intravedeva la sacralità di un gesto antico, tramandato di madre in figlia.  Quella che, a buon ragione, poteva sembrare un’attività come le altre, semplice, banale nella sua meccanicità, per Emma diveniva uno spettacolo da godersi in prima fila, osservando ciascun particolare con cura e ammirazione, e registrando mentalmente la sequenza esatta dei movimenti, consapevole che in essa era racchiuso un segreto imprescindibile e occulto: il segreto della piegatura perfetta.
Anche in un gesto quotidiano come quello, l’amore di sua madre esplodeva in tutte le sue forme. Una vita di sacrifici e rinunce si cristallizzava in quel preciso istante immortale.
Tra le mura di casa, la sua era una vera e propria danza. Dalla sala da pranzo alla cucina, dal bagno alle camere da letto. Si muoveva con tale grazia da sembrare, agli occhi gonfi di stupore di Emma, una ninfa dei boschi intenta a contemplare le bellezze della natura e il focolare familiare diveniva il nido sicuro in cui trovare il significato più intimo dell’esistenza.
Emma chiude gli occhi: ecco il suono delle ciabatte della madre mentre sale le scale. E’ una melodia che ormai le appartiene, conosciuta a memoria come le sue canzoni preferite.


Van Gogh, "Camera da letto"

Forse non si perde il significato delle cose reali, quando queste divengono ripetizioni infinite dell’uguale. Anzi, acquisiscono un valore aggiunto, dato dalla loro innegabile vitalità, dal legame stretto che hanno con la vita vera. Ma quando ciò si trasferisce dal piano dell’oggettività al piano delle idee, delle sovrastrutture, delle speculazioni, il ciclo dell’iterazione determina la paralisi della mente e della volontà.
La sua prospettiva, di Elizabeth, era una miscellanea inestricabile di filosofie e letterature. Negli anni della formazione aveva appreso e assorbito informazioni che erano divenute spunto di ulteriori riflessioni. E ora che il mondo le proponeva come mai prima di allora l’incredibile orizzonte delle alternative esistenziali, reagiva opponendo una sottile forma di apatia nascosta da un’apparente attività, un’esecuzione automatica e meccanica di azioni priva di qualsiasi elemento di consapevolezza. Faceva, imparava, scriveva, studiava..ma si osservava da fuori, come una spettatrice passiva di sé stessa. Si vedeva curva sulla scrivania, intenta ad acquisire nozioni che non avrebbero fatto altro che acuire il suo senso di incapacità persistente.
Non è altro che il meccanismo stesso del ricordo: osservare dal di fuori il dispiegarsi nel tempo della propria vicenda esistenziale. Riflettere sulle proprie azioni passate e rendersi conto di quanto siano intangibili, sfuggevoli, effimere. Esiste una differenza tra il vissuto e il non vissuto? In fondo fanno entrambi parte della dimensione psicologica della memoria, che non ha sostanza.
Così Elizabeth guardava sé stessa e appuntava su un taccuino le sue impressioni, come un medico che studia il suo caso clinico e descrive i fenomeni che si presentano ai suoi occhi. Elizabeth appuntava i suoi fenomeni. Elizabeth giudicava sé stessa.

martedì 3 settembre 2013

Eveline di James Joyce

LA LIBERTA' DEL CUORE NEGATA DALLA PAURA

Stava seduta alla finestra a guardare la sera che invadeva la strada. La testa era appoggiata sulla tenda della finestra e le narici sentivano l’odore del polveroso tessuto di cretonne. Era stanca.
Passava poca gente. Il tizio dell’ultima casa ritornava; sentì i suoi passi battere sul marciapiede di cemento e subito dopo scricchiolare sul sentiero di scorie davanti alle case rosse. Una volta c’era un campo lì in cui si giocava ogni sera con i figli di altra gente. Poi un tizio di Belfast comprò il campo e ci costruì case –non come le loro casette marroni, ma delle case di mattoni con i tetti lucenti. I bambini della strada giocavano in quel campo –i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo zoppo, lei, i suoi fratelli e le sue sorelle.
Ernest, tuttavia, non giocava mai: era tropo grande. Suo padre spesso li andava a cercare fino giù al campo col suo bastone di rovere; ma di solito il piccolo Keogh faceva da vedetta e li chiamava in ritirata quando vedeva suo padre arrivare. Eppure sembravano essere stati felici allora. Suo padre non era così cattivo allora. E poi sua madre era viva. Era tanto tempo fa.
Lei e i suoi fratelli e le sue sorelle erano cresciuti e sua madre era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. Adesso lei stava andando via, come gli altri, per lasciare la sua casa.
La casa! Si guardò intorno alla stanza, rivedendo tutti i suoi oggetti familiari che aveva spolverato una volta alla settimana così tanti anni, chiedendosi da dove cavolo venisse tutta quella polvere. Forse non avrebbe più visto tutti quegli oggetti familiari da cui non si sarebbe mai sognata di separarsi.
Eppure in quegli anni non aveva mai scoperto il nome del prete la cui fotografia ingiallita stava appesa alla parete sopra l’armonium rotto accanto alla stampa a colori dell’ex voto fatto alla Beata Margaret Mary Alacoque. Era stato compagno di scuola si suo padre. Questi ogni volta mostrava la fotografia agli ospiti la passava con una frase a caso:
“E’ a Melboourne adesso.”
Aveva acconsentito ad andar via, a lasciare la sua casa. Era stata una cosa saggia? Aveva cercato di soppesare tutti i lati della questione. A casa sua ad ogni modo aveva un tetto e cibo; aveva intorno tutto ciò che conosceva da tutta la vita. Naturalmente doveva lavorare duro, sia a casa che al lavoro. Cosa avrebbero detto di lei al negozio quando avrebbero scoperto che era scappata via con un ragazzo? Avrebbero detto che era una cretina, forse. Ed il suo posto sarebbe stato coperto da un annuncio. Miss Gavan sarebbe stata contenta. Era sempre stata pungente con lei, specie ogni volta che c’era gente che sentiva.
“Miss Hill, non vede che queste signore aspettano?”
“E svegliatevi, Miss Hill, per favore!”.
Non avrebbe pianto molte lacrime nel lasciare il negozio.
Ma nella sua nuova casa, in una terra lontana e sconosciuta, non sarebbe stato così. Allora sarebbe stata sposata –lei, Eveline. La gente l’avrebbe trattata con rispetto allora. Non sarebbe stata trattata come sua madre era stata trattata. Anche adesso, sebbene avesse diciannove anni e più, si sentiva sotto il pericolo della violenza di suo padre. Sapeva che era stato lui che le aveva fatto venire le palpitazioni.
Quando erano cresciuti lui non era mai stato con lei come lo era con Harry ed Ernest, perché lei era una ragazza, ma più tardi aveva incominciato a minacciarla e a dirle che lo faceva solo per amore di sua madre morta. E lei non aveva nessuno che la proteggesse. Ernest era morto ed Harry che lavorava in una chiesa come decoratore, era quasi sempre fuori da qualche parte nel paese.
E poi le eterne discussioni sui soldi il sabato sera avevano incominciato a stancarla indicibilmente.
Dava sempre la sua intera paga –sette scellini- ed Harry mandava sempre quello che poteva ma il guaio era ricevere i soldi dal padre. Questi diceva sempre che lei sperperava il denaro, che non aveva testa, che non le avrebbe dato i suoi soldi lavorati con sudore per farglieli gettare dalla finestra, e molto di più, perché egli stava di solito proprio male il sabato sera.
Alla fine le avrebbe dato i soldi e le avrebbe chiesto se aveva intenzione di comprare il pranzo della domenica. Allora lei doveva precipitarsi più veloce che poteva a fare la spesa, tenere il suo portamonete di pelle nera stretto in mano mentre si faceva strada a gomitate in mezzo alla folla e tornare a casa col carico delle provviste. Doveva lavorare duro per tenere su la casa e badare a che i due bambini piccoli che erano stati affidati a lei andassero a scuola regolarmente e mangiassero regolarmente. Era un lavoro duro –una vita dura- ma adesso che stava per lasciarla non le sembrava una vita del tutto indesiderabile.
Stava per esplorare un’altra vota con Frank. Frank era molto gentile, virile, dal cuore aperto. Lei stava per andar via con lui con un battello notturno per essere sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires dove lui aveva una casa che l’aspettava. Come ricordava bene la prima volta che lo aveva visto; lui alloggiava in una casa sulla via principale dove lei andava a trovarlo. Sembrava poche settimane fa. Lui stava al cancello, il cappello con la visiera messa all’indietro sulla testa e i capelli scompigliati davanti sul viso abbronzato.
L’aveva portata a vedere La Bohéme e lei si sentiva inebriata mentre era seduta in un’insolita parte del teatro insieme a lui. Lui era totalmente patito di musica e cantava un pochino. La gente sapeva che amoreggiavano e, quando egli cantava della ragazza che amava il marinaio, ella si sentiva appassionatamente confusa. Lui la chiamava Poppens per scherzare. Prima di tutto era stato eccitante per lei avere un ragazzo e poi lui aveva incominciato a piacerle. Faceva sempre dei racconti di paesi lontani. Aveva iniziato come mozzo da suna sterlina al mese su una nave della Allan Line che andava in Canada. LE diceva i nomi delle navi dove era stato e i nomi delle diverse mansioni. Aveva attraversato lo Stretto di Magellano e le aveva raccontato storie sui terribili Paragoni. Le cose gi erano andate bene a Buonos Aires, diceva, ed era arrivato sul vecchio continente solo per una vacanza. Naturalmente il padre aveva scoperto la storia le aveva vietato di avere a che fare con lui.
“La conosco questa razza di marinai”, diceva.
Un giorno egli aveva litigato con Frank dopodiché lei doveva incontrarle il suo amore in segreto.
La sera sprofondò sul viale. Il bianco delle due lettere sul suo grembo diventò indistinto. Una era per Harry; l’altra per suo padre. Ernest era stato il suo preferito ma voleva bene anche ad Harry. Suo padre stava diventando vecchio ultimamente, aveva notato. Le sarebbe mancato. Qualche volta aveva saputo anche essere simpatico. Non molto prima, quando lei era stata a letto per un giorno, le aveva letto una storia di fantasmi e preparato del pane abbrustolito. Un altro giorno, quando la loro mamma era viva, erano andati tutti a fare un picnic sulla collina di Howth. Ricordò suo padre che si era messo il cappellino di sua madre per far ridere i bambini.
Il suo tempo stava volando ma ella continuava a star seduta alla finestra, con la testa appoggiata contro la tenda della finestra, inalando l’odore del cretonne polveroso. Giù per il viale, riusciva a sentire una organetto da strada suonare. Conosceva quella musica straniera che doveva essere arrivata per ricordarle della promessa fatta a sua madre, la promessa di reggere la casa finché poteva. Si ricordò dell’ultima notte della malattia della madre; lei si ritrovava ancora nella chiusa stanza buia all’altra parte della sala e fuori sentì una malinconica musica italiana. All’organista era stato ordinato di andare via e gli avevano sei sterline. Si ricordò di suo padre che ritornando impettito nella stanza dell’ammalata disse:
“Maledetti Italiani! A venire fin qui!”
Mentre pensava la pietosa immagine della vita della madre poggiava il suo incantesimo nel suo essere più profondo –quella vita di comuni sacrifici che finiva nella pazzia finale. Tremava mentre sentiva ancora la voce di sua madre che diceva costantemente con assurda insistenza:
“Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!”

Si alzò in un improvviso impulso di terrore. Fuggire! Fuggire! Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato la vita, forse anche l’amore. Ma lei voleva vivere. Perché doveva essere infelice? Aveva il diritto di essere felice. Frank l’avrebbe portata tra le sue braccia, avvolta tra le sue braccia, L’avrebbe salvata.
Stava tra la folla ondeggiante alla stazione di North Wall. Lui la teneva per mano e lei sapeva che le stava parlando, dicendo qualcosa sul viaggio ripetutamente. La stazione era piena di soldati con delle valige marrone. Attraverso le ampie porte dei portici riuscì a vedere la massa scura della nave, accanto al muro della banchina, con gli oblò illimmminati. Non rispose. Si sentiva le guance pallide e fredde e in mezzo alla confusione mentale, pregò Dio di direzionarla, di mostrarle quale era il suo dovere.
La nave soffiò un lungo triste fischio nella nebbia. Se fosse andata l’indomani sarebbe stata in mare con Frank, diretta Buenos Aires. Il loro posto era stato prenotato. Si poteva tirare indietro dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei? La confusione mentale le fece venire la nausea nel corpo ed ella continuava a muovere le labbra in silenziosa, fervente preghiera.
Una campana suonò sul suo cuore. Sentì che lui le afferrava la mano:
“Vieni”.
Tutti i mari del mondo inondarono il cuore. Lui la stava spingendo verso di loro: l’avrebbe annegata. Si aggrappò con entrambe le mani alla ringhiera.
“Vieni”.
No! No! No! Era impossibile. Le sue mani si aggrapparono freneticamente al ferro. In mezzo ai mari mandò un grido di angoscia.
“Eveline! Evvy!”


Lui si spinse oltre la barriera e le gridò di seguirlo. Gli fu urlato di andare avanti ma lui la chiamava ancora. Ella pose il suo viso pallido su di lui, passivo, come un animale inerme. I suoi occhi non gli davano segno di amore o di addio i di riconoscimento. 

lunedì 29 luglio 2013

Life Bites - La signora Lucia. cap 1

La signora Lucia abitava al terzo piano del palazzo in Via Mezzanotte. Lo stesso terzo piano in Via Mezzanotte in cui abitavano i miei nonni. Era dotata di un udito oltremodo sviluppato, considerando i suoi venerandissimi 85 anni. Non appena inserivo la chiave nella toppa ecco, per magia o per induzione,
aprirsi un'altra porta: quella della signora Lucia. La sua esile e curva figura appariva pian piano dietro il massiccio portone blindato. Io voltavo cautamente la testa, quasi come a prolungare quel tempo estenuante d'attesa e a scongiurare l'inevitabile incontro. Mentre nelle mie orecchie risuonava un'immaginaria evocativa colonna sonora da film thriller, eccola li, di fronte a me, la signora Lucia, stretta nei suoi 40 chili. Neanche il tempo di imprecare interiormente che lei, con voce prima flebile, poi sempre più vigorosa, cominciava la sua lunga, interminabile, logorroica catalogazione dei mali che l'avevano afflitta quella mattina. E io, che avevo ancora in mano le chiavi di casa, anch'esse evidentemente provate poiché per l'ennesima volta il loro destino era rimasto incompiuto, mostrando un sorriso di cartongesso, dicevo nell'eloquente sottotitolo del mio saluto cortese: "ma come cazzo...!". Troncando ogni volta quel pensiero sull'interiezione "cazzo", poiché qualsiasi domanda mi fossi posta di seguito non avrebbe mai potuto ricevere una risposta plausibile.
Dunque toglievo le chiavi ormai sconfitte dalla toppa, raccoglievo l'esplicita richiesta di compagnia, ed entravo in quel mondo misterioso e sofferto chiamato "La casa della signora Lucia".


La signora Lucia aveva sempre pronta una macchinetta del caffè. Nel senso che occorreva soltanto accendere il fornello. Forse aveva una dispensa piena di macchinette pronte all'uso, che preparava attentamente ogni mattina. E anche i fornelli, con la stessa probabilità, erano sempre pronti e accesi. Una volta oltrepassata la soglia di casa mi recavo in cucina, cercando di sciogliere mentalmente la matassa di discorsi che la signora Lucia intrecciava come la trama di una storia nosense. Non di rado cadevo nella tentazione di introdurmi nel discorso con una supercazzola: la logica illogica delle sue parole era di quello stampo, per cui non sarei risultata fuori luogo. Comunque, superata quella perversa ma divertente tentazione, sedevo a tavola; come prima cosa estraevo il cellulare dalla tasca dei jeans, controllavo l'orario e facevo una stima (sempre troppo ottimistica) del tempo che con ogni probabilità avrei passato lì dentro. Pensavo dieci minuti. Venti minuti al massimo.
Concretamente, ogni volta, non me la cavavo con meno di un'ora. Un'ora interminabile, intervallata da momenti rituali come la "zuccherazione" del caffè, o la scelta del biscotto meno invecchiato (confesso di aver pensato più di una volta che i biscotti della signora Lucia avessero anch'essi 85 venerandissimi anni) tra una sfilza interminabile di varietà diverse con cui la signora imbandiva con cura la tavola. Se provavo a rifiutare le sue generose offerte con un "Grazie ma non mi va nulla", questa stessa affermazione sembrava attraversarle un orecchio e poi l'altro con un accelerazione da 0 a 100 che nemmeno Valentino Rossi dei tempi migliori. Di certo non potevo dubitare del suo udito. Ma la signora Lucia, con rinnovato vigore e, anzi, quasi incoraggiata dal mio cortese rifiuto, ricominciava pedissequamente l'enumerazione dei biscotti disponibili e aggiungeva, sulla tavola ormai stracolma, altre confezioni e pacchi e pacchetti e scatole di cioccolatini da far gola alle più grandi case farmaceutiche produttrici d'insulina. Certa di non voler aumentare il fatturato di quelle stesse case farmaceutiche, persistevo nel mio rifiuto, nonostante un leggero senso di colpa scaturito dal viso della signora Lucia, che mostrava un dispiacere sincero per la mia mancanza d'appetito. A quel punto tentavo di recuperare il suo stato d'animo con commenti positivi e decorativi sulla qualità del caffè e sulla brillante pulizia della cucina. Una nuova ruga, allora, le solcava il viso, contraendolo in una smorfia che, per quello che mi piaceva credere, era certamente un abbozzo di sorriso. Forse la signora Lucia non era più abituata a sorridere, e questo giustificava la sua incapacità di contrarre i muscoli del viso nel modo consono. E' questione di pratica. Anche la felicità va allenata.

La conversazione procedeva a senso unico. Un modo carino per dire che più che un dialogo si trattava di un esemplare esercizio di soliloquio. Si potrebbe dire che la signora Lucia, in una metafora calcistica, aveva il 95% del possesso palla. O, se volete, del possesso parola. Io ero la spettatrice passiva della sua solitudine, che esplodeva nelle mie orecchie in tutte le molteplici forme in cui la parola può esprimersi e la vita librarsi.

   

venerdì 31 maggio 2013

Diritto incoercibile alla lacrima facile

L'errore comune a quasi tutti gli adulti che conosco è quello di considerare sciocche e banali le preoccupazioni dei più giovani.
"Non pensare a queste stupidaggini, goditi la vita che poi quando sarai grande arriveranno i veri problemi". 
Vorrei un attimo soffermarmi sul significato dell'espressione "veri problemi". Escludendo una riflessione filosofica sull'aggettivo "vero" (usato troppe volte a sproposito), mi chiedo come sia possibile stabilire a priori il peso e l'importanza di un problema. Nonostante i miei 21 anni, ho una considerazione di me tale da pormi su un gradino di superiorità umana e intellettiva rispetto a molti adulti che frequento. Credo fermamente che un bambino di quattro anni abbia il diritto di piangere (e di piangere tutte le lacrime che i suoi occhi sono in grado di produrre) per il ciuccio che gli è stato appena tolto, allo stesso modo di un uomo di quarant'anni che ha appena perso il lavoro. Se poi si tratta dell'amore, guai a fare distinzioni! Chi vuol piangere pianga: per un bacio negato, un amore finito, un tradimento, una telefonata attesa e mai arrivata! Non esiste una scala di valori che quantifica l'intensità dei problemi. La vita è varia, le persone hanno una loro propria sensibilità che li differenzia le une dalle altre.
Il pianto, la sofferenza, la disperazione: forse sono gli unici campi in cui l'uomo non potrà mai esercitare il suo potere di censore.


Nonostante ciò:

Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
 Lorenzo de' Medici, Trionfo di Bacco e Arianna



martedì 30 aprile 2013

Ombre di Luce Propria - 4. Seta


Sfugge dalle dita
il senso delle cose
come velo lieve
che la brezza allontana
dal corpo di una donna,
come foglie smarrite
che il vento strappa
al rifugio delle fronde,
come nave possente
che quieti porti abbandonano
al tormento del mare.
Nave che vaghi nella nebbia
per mari e oceani remoti,
superi tempeste e burrasche
sfiori le sponde di terre lontane.
Le sirene attraggono i tuoi marinai,
col canto seducono le loro ragioni;
ma saldi si legano come Ulisse
ai tuoi alberi
e mai lasceranno il tuo ponte,
mai lasceranno il tuo legno
in balia delle acque
per seguire quel canto fatale.
Porti, terre e città ancora ti attendono.
E quella spiaggia.
L'ultima da accarezzare.
Canterai:
sul mare della vita
ho incontrato
una spiaggia dove approdare
una riva su cui scivolare
lenta e lieve come seta d'Oriente.


giovedì 25 aprile 2013

Vaneggio


Non muove la foglia invano
quando stremata dall'opposizione
cede e s'accascia.
La terra umida l'accoglie
la bagna, la assorbe.
Trascorre la fredda stagione
e sull'albero ormai foglie nuove.
Ai piedi del padre la relittuosa
si insinua nelle remote falde
nel buio di una vita profonda.
Trapassa fasce di terra
fredde, fibrose di grano.
Nel suo scivolare al fine s'arresta:
la radice imponente si mostra.
La vuole, l'attira, l'afferra
e la foglia ormai vinta

per sempre ad essa si avvinghia.


martedì 23 aprile 2013

Strappa l'Anima



Strappa l'anima
il rifiuto ragionato di un istinto
nel sensato disprezzo della pelle.

Strappa l'anima
un no che nasce da un sì
con la volontà smorzata dal dovere.

Strappa l'anima
una lacrima offesa sul tavolo
prima sparsa tra le pieghe del viso.

Strappa l'anima
il riflesso di un desiderio corrotto
con cui l'impotenza piega l'orgoglio.

Strappa l'anima
una verità negata ad arte
per una bugia che sgorga dagli occhi.

giovedì 4 aprile 2013

Singhiozzo


M'opprime il perenne rimbombo
del mio singhiozzare,
riflesso esteriore
d'un intimo moto .
L'anima vibra
a tempo di pioggia
e tende la tenera guancia
sovente rigonfia.
Perduta la forza
il vigore d'un corpo gentile
si lascia al fluire del giorno
e s'accascia alla tenebra ottusa.
Non mai tante lacrime aspersero
il viso di dolce fanciulla
alla quale uno zoppo destino
riservò tale cruda esistenza.
Tuttavia quel signore focoso
s'alza pur dopo un tempo nemico
e di oscure tempeste e burrasche
fa dimentico l'essere ansioso.

giovedì 7 marzo 2013

Poeta


Tu che stordisci la notte
col tuo canto sciolto
le tue parole affrante
le tue virgole appese
e i discordanti versi.

Tu che dai forma al vuoto
all'incostante assenza
al peso della vita
a frasi compromesse
che il fato non perdona.

Tu che il punto togli,
poi che il punto metti
e negli spazi assenti
confessi più parole
di quelle che trascrivi.

Offeso s'alza il braccio
della furiosa penna
per accusare ancora
l'incedere stentato
del tempo ormai perduto.

mercoledì 27 febbraio 2013

Canto Notturno di un'Anima Errante


Sgorga l'ultima ora
di una notte infelice
disturbata da vacue parole,
violentata dall'incedere triste
di noiosi congegni
vibranti d'istanti cessati e perduti.
Il tempo schiavizza
lo spazio e la quiete
affinché il naturale disìo
in sé inappagato
giunga a una fine insoluta
tra lacrime e terra.

Avventuriero perduto,
tra mari e deserti
tu cerchi una via di salvezza.
Ti appoggi alla vita
a una speranza mai spenta
che brucia d'ardente passione.
Non perda tu mai la via buona,
mansueto ricerca il perdono
l'amore e una calda dimora.
Che il tempo non voglia estirpare
la radice del tuo saldo vigore.

Che morte nel cuore non giunga
a piegare la tua retta schiena.


mercoledì 20 febbraio 2013

Ombre di Luce Propria - 3. Vibrare


I pensieri sono vento
disciolto nella sabbia
che danza
tra bolle di fuoco
e vapori di misto nonsenso.
Non c'è direzione un segnale
un destino
una densa sostanza
che scandisca l'essenza.
È un fluire sconnesso
di frasi parole
toni di voce
silenzi
pause assenti tra i silenzi.
È una danza chiassosa
un volteggio dell’aria
che sfiora le viole
e si adagia su spiagge
bagnate dal sole.
S'addormenta, il pensiero;
riposa,
rinviene.
Il vento solleva
la sua molle levità,
la conduce nell'ultimo cielo
tra divinità
che danzano
a tempo di vento.

Impotenza crudele,
amaro fardello della ragione,
inganna e smentisce
il fragile umano.

venerdì 8 febbraio 2013

Ombre di Luce Propria - 2. Attesa


Non ho paura di te
quieto amore,
ho paura del mio silenzio
ho paura del mio dolore.

Attendo all'argine
di un fiume in piena
che tramonti il buio
di questa mia sera.


giovedì 7 febbraio 2013

Ombre di Luce Propria - 1. Il passo dell’ombra

Sopporto a fatica l'assenza,
il rumore di un'ombra che avanza.
Silenzio costante che suona
una nota di puro dolore.

E vibra la corda di un piano
scordato nel senso
di dimenticato;
da solo tra tasti
di giallo dipinti
si sente ormai vecchio,
oppresso dall'eco
di note disperse
nel mare gelato
di quello che non è mai stato.

L'accordo maggiore non esce,
s'abbassa al minore
che nasce,
per rendere in toni calanti
il canto dei mille rimpianti.



giovedì 24 gennaio 2013

Prove di descrizione: il sorriso.

Il sorriso è un linguaggio universale, senza tempo, senza contesto.
E' una forma di comunicazione che supera i pregiudizi culturali, le barriere linguistiche, le differenze sociali.
E' il modo attraverso cui un'emozione, che è priva di sostanza, assume una sua concretezza sul nostro corpo, diventando visibile.
E' una curva che impreziosisce il nostro viso, rendendolo luminoso e plastico.
E' il modo più efficace per scongiurare l'incedere dell'età che avanza coi suoi segni indelebili.
E' il mezzo di comunicazione degli introversi.
E' il mezzoo di comunicazione degli estroversi.
E' una strategia teatrale che nasconde una verità o una bugia.
E' una maschera dietro la quale si nasconde la sofferenza.
E' uno specchio davanti al quale si manifesta la felicità.
E' soggetto a interpretazioni a seconda dei soggetti.
E' oggetto di discussioni filosofiche.
E' un espediente attraverso cui tentiamo di sfuggire a situazioni o conversazioni sconvenienti.
E' il meccanismo mimico che traduce a livello fisionomico un'insieme di sensazioni, emozioni e stati d'animo diverse e, talvolta, antitetiche.

A volte, è l'unità di misura del tasso alcolico del nostro corpo.
Altre volte, invece, quantifica il nostro stato di disagio o imbarazzo.







sabato 19 gennaio 2013

La mitologia del passato


Tramite i nostri ricordi rievochiamo un passato mitico, depurato, che appare alla nostra mente migliore del presente che viviamo. Lo sublimiamo, privandolo di tutte le sue sfaccettature negative per elevarlo poi ad un livello di esemplarità, dove crediamo di aver sperimentato la felicità vera. Non facciamo altro che associare al passato tutto ciò che per noi assume un valore positivo. Ma è una tremenda bugia, è una manipolazione del ricordo attraverso cui inganniamo noi stessi e il tempo che stiamo vivendo. Quel passato, una volta, è stato presente, e da presente è stato momento in cui rievocare nostalgicamente un altro passato migliore. E così via. E' la logica inespugnabile dell'eterno ritorno.
Il ritorno al passato: la nostalgia.
Nostalgia. Parola antica, greca. Deriva dall'unione delle parole "nostos"(ritorno) e "algos"(dolore): il dolore del ritorno.
E' Il passato che riaffiora e ripone sulla superficie della nostra sensibilità e della nostra immaginazione il dolore di quello che non è più. 



Il ricordo nostalgico si impadronisce della nostra volontà, la mette in ginocchio, la denigra fino a disintegrarla. Ricordare è osservare dal di fuori il dispiegarsi nel tempo della propria vicenda esistenziale. Riflettere sulle proprie azioni passate e rendersi conto di quanto siano intangibili, sfuggevoli, effimere. Esiste una differenza tra il vissuto e il non vissuto? In fondo fanno entrambi parte della dimensione psicologica della memoria, che non ha sostanza.
Ma il dolore, invece, ha una sua sostanza concreta, fatta di mani che tremano, lacrime, macigni che gravano sul petto. E se il ricordo si lascia dominare dalla nostra immaginazione, se si lascia violentare dalle nostre fantasie di un passato apparentemente grandioso e felice..allora la volontà si rinchiude nella cella oscura dell'autocommiserazione.

giovedì 17 gennaio 2013

Emma chiese al vento


Emma chiese al vento: "Parlami dell'amore".
Allora egli si fermò, bloccò per un attimo il suo corso divino, la sua dirompente danza nell'aria, e soffiò delicato nelle sue orecchie, bisbigliando piano come un dolce amante premuroso:  "Guarda tutto ciò che hai intorno. Nei paesaggi, nella natura, nel sole, nelle stelle..cosa vedi?
C'è un principio unico che domina il mondo,
che fa volare gli uccelli in alto nel cielo,
che sveglia il sole ogni mattina e lo addormenta dolcemente la sera,
che muove paziente le instancabili onde del mare e fa brillare le stelle anche quando ormai in loro non vi è più una scintilla di vita;
che da la forza alle cascate di scendere giù a valle,
che spinge le vele delle navi in pieno oceano, cariche di speranze e di uomini dal viso bruno e gli occhi pieni;
che fa sgorgare acqua argentata dalla terra..
e poi ruscello, affluenti, fiume e mare: la vita solitaria che si disperde nell'immenso e nell'indistinto.
Pensi che tutto ciò avvenga senza un disegno?
Questo principio avvolge anche gli uomini, accende i loro animi stanchi e risveglia i loro istinti più puri. C'è chi cerca di opporsi alla sua indomabile forza, ma ne esce
ogni volta
inevitabilmente sconfitto.
E tu cosa scegli anima sconfinata?
La vittoria o l'umiliazione della sconfitta?
Quando questo principio superiore e inafferrabile colpisce dritto al cuore degli uomini, grandi sono i suoi miracoli e miracolose le sue grandezze.
E' lui la forza che spinge una madre a sacrificarsi per la vita di una figlia sognante dagli occhi immensi come è immenso l'oceano.
C'è lui nelle dolci e docili mani degli amanti che si accarezzano persi l'uno nello sguardo dell'altro, per ricordare per sempre i contorni dei reciproci volti, per imprimere per sempre nella mente le curve ripide e vibranti delle rosse labbra, il profilo curioso del naso, il percorso lineare delle sopracciglia, le valli preziose degli occhi che sono un universo che si concentra in due punti infiniti, la sottile concavità di un sorriso che incendia l'anima rendendola calda come un raggio di sole a mezzogiorno.
E' la fiamma che divampa tra le arterie del cuore ed è l'acqua che spegne gli incendi della ragione.
Anima dolce: chiedi a me cos'è l'amore, a me che sono il vento, un vagabondo che viaggia attraverso nazioni e paesi, incontra popoli e conosce i segreti nascosti negli angoli più remoti della terra.
E io che so tutto, ho conosciuto anche l'amore..
ed è l'Anima a cui sto bisbigliando le verità della vita.".
"Vento, io sarò vittoriosa", sussurrò Emma..
e chiuse i grandi occhi pieni.

mercoledì 16 gennaio 2013

Straniamento


De Chirico - Le Muse Inquietanti
Ti capita a volte, forse raramente, di trovarti a parlare con qualcuno dei tuoi problemi, delle preoccupazioni che ti tormentano, o semplicemente di te stesso, di quello che sei veramente, nel profondo della tua essenza, per tentare di fare ordine in quella grande confusione che è la tua personalità. E mentre parli e le parole fuoriescono velocemente dalla tua bocca, ti senti invaso da una sensazione insolita, perturbante, straniante. Continui a parlare, cercando di dispiegare il tuo io segregato e oppresso, ma ciò che ti rimane, oltre le parole, non è altro che l'ineffabile sensazione di essere estraneo a te stesso, come se non fossi tu a parlare di te, come se non avessi il controllo dei muscoli facciali che ti permettono di muovere la bocca, mentre da essa escono parole, frasi, concetti che tu non sei in grado di controllare. E nel fluire incessante del discorso, ti accorgi che è tutto un girare semplicemente attorno a quello che sei veramente: è come procedere fuori dal guscio, sulla superficie esterna, senza mai penetrare davvero nel nucleo, nel centro profondo della tua ultima, sublime, remota verità.
E senti di essere impenetrabile, anche per te stesso.