Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog
Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

giovedì 12 settembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 1. Intersezioni

Sottoporre l'intera umanità a un rigido codice morale.
Questo Elizabeth aveva imparato sin da bambina.
Costruire uno schema mentale di comportamento e in base a questo giudicare ogni essere vivente, chiunque intendesse anche solo avvicinarsi per scambiare due parole, magari per parlare del tempo o dell'inefficienza dei mezzi di trasporto. Ma per lei tutto ciò era vagamente retorico, fuorviante, trascurabile. Una pianura di banalità e piattume in cui non c'era spazio per la verità né per l'essenza vera di quell'ideale astratto di umanità che perseguiva. Il suo rigido atteggiamento nei confronti dell'altro aveva l'inevitabile conseguenza di abbandonarla a uno stato perenne di solitudine, dove i libri e lo studio sembravano essere le uniche ancore di salvezza in mezzo a un mare di superficialità.
Non fuggiva dal gruppo, riusciva anzi a costruire un'immagine di sé stessa accettabile e piacevole agli occhi degli altri, sforzandosi in tutti i modi di trovarsi a suo agio. Ma nella compagnia percepiva un'indefinibile sensazione di inadeguatezza, di assenza totale dal mondo reale; un ottundimento che la sganciava dalla concretezza per condurla sulle ali di una realtà immaginaria e inafferrabile.
Punto.

"Emma scendi!".
"Arrivo mamma".
"Sono tre ore che ti dico di scendere".
"Lo so, stavo facendo. Dimmi: cosa c'è?".
"Togli i panni dalla lavatrice e stendili fuori.".
"Ma perché sempre io?".
"Su! non fare storie che ho da fare".
Dopo aver tentato un'ultima resistenza, Emma risale le scale sbuffando come un vecchio treno a vapore. Spalanca l'oblò della lavatrice con un gesto ormai meccanico e si inoltra nel mondo variopinto della biancheria, ripensando a tutte le volte in cui si era ritrovata lì, in quel punto esatto, di fronte a quel noioso elettrodomestico che attendeva di essere svuotato proprio da lei per poi ricominciare, ancora una volta, a girare.
A girare.

La cultura le aveva aperto prospettive che mai prima di allora aveva sperimentato. L'orizzonte della conoscenza si ampliava con tale rapidità che ogni volta che giungeva a una nuova acquisizione, ecco che una molteplicità di altre possibili conoscenze le si proponeva dinnanzi agli occhi, turbandola al punto tale da vagheggiare l'idea dell'inutilità dell'apprendimento. Era la ripetizione infinita e inesauribile dell'atto di imparare che la spaventava: come quei gesti che le madri sono solite fare e rifare fino a sera, giorno dopo giorno, senza che mai il loro lavoro giunga a una conclusione definitiva.
Elizabeth apriva l'oblò del mondo, e all'interno di esso scovava una moltitudine di possibilità dentro cui le appariva inevitabile smarrirsi.
Il mare di fronte ai suo occhi e lei...lei un granello di sabbia.
Nel suo quaderno di poesie dalle pagine ingiallite, scrigno delle sue intime verità, scriveva:

Sostengo
l'intollerante peso
di questa ignoranza
quando l'universo
della conoscenza
diventa schiacciante
infinità
di molteplici possibilità
impossibili
da possedere
per mani che stringono
frammenti di briciole
d'impalpabile immensità.
Oscura verità
che lacera l'animo inquieto
dei figli di Ulisse.

A girare.

Si perdeva nelle sue riflessioni.
Elizabeth.
Dolce, Elizabeth.
Smarrita, persa e ritrovata, nella sua poesia.
Leggera, Elizabeth, come una foglia che l'autunno abbandona sul terreno umido.
Cercava risposte e trovava domande. Imparava e pretendeva di sapere ancora, ancora di più. Si sentiva impotente, incapace di dare una definizione ultima alla sua sete di sapere.
Insoddisfatta, Elizabeth.
Questo mondo non ti appartiene.

Ad essere precisi, ogni giorno sua madre avviava la bellezza di quattro lavatrici, tre volte metteva il caffè sul fornello, almeno due caricava la lavastoviglie. Moltiplicando per 365 giorni, si ottiene l’esorbitante cifra di 1460 cestelli riempiti e svuotati, 1095 caffettiere da lavare e 730 giri di piatti, forchette, padelle e coperchi perfettamente lavati e sgrassati.
SI svegliava al mattino e iniziava il suo ciclo rituale: puliva, preparava, spolverava, lucidava, sistemava, smacchiava , cucinava. Un lavoro a tempo pieno senza retribuzione. L’unico compenso, che non chiedeva apertamente ma in cuor suo sperava e invocava, era un poco d’amore.
Il suo lento muoversi da una stanza all’altra aveva un non so che di magico e sacro e al tramonto la luce macchiata di rosso che filtrava dalle finestre investiva la sua figura, irradiandola di un’energia quasi celeste: nell’atto di piegare i panni, Emma intravedeva la sacralità di un gesto antico, tramandato di madre in figlia.  Quella che, a buon ragione, poteva sembrare un’attività come le altre, semplice, banale nella sua meccanicità, per Emma diveniva uno spettacolo da godersi in prima fila, osservando ciascun particolare con cura e ammirazione, e registrando mentalmente la sequenza esatta dei movimenti, consapevole che in essa era racchiuso un segreto imprescindibile e occulto: il segreto della piegatura perfetta.
Anche in un gesto quotidiano come quello, l’amore di sua madre esplodeva in tutte le sue forme. Una vita di sacrifici e rinunce si cristallizzava in quel preciso istante immortale.
Tra le mura di casa, la sua era una vera e propria danza. Dalla sala da pranzo alla cucina, dal bagno alle camere da letto. Si muoveva con tale grazia da sembrare, agli occhi gonfi di stupore di Emma, una ninfa dei boschi intenta a contemplare le bellezze della natura e il focolare familiare diveniva il nido sicuro in cui trovare il significato più intimo dell’esistenza.
Emma chiude gli occhi: ecco il suono delle ciabatte della madre mentre sale le scale. E’ una melodia che ormai le appartiene, conosciuta a memoria come le sue canzoni preferite.


Van Gogh, "Camera da letto"

Forse non si perde il significato delle cose reali, quando queste divengono ripetizioni infinite dell’uguale. Anzi, acquisiscono un valore aggiunto, dato dalla loro innegabile vitalità, dal legame stretto che hanno con la vita vera. Ma quando ciò si trasferisce dal piano dell’oggettività al piano delle idee, delle sovrastrutture, delle speculazioni, il ciclo dell’iterazione determina la paralisi della mente e della volontà.
La sua prospettiva, di Elizabeth, era una miscellanea inestricabile di filosofie e letterature. Negli anni della formazione aveva appreso e assorbito informazioni che erano divenute spunto di ulteriori riflessioni. E ora che il mondo le proponeva come mai prima di allora l’incredibile orizzonte delle alternative esistenziali, reagiva opponendo una sottile forma di apatia nascosta da un’apparente attività, un’esecuzione automatica e meccanica di azioni priva di qualsiasi elemento di consapevolezza. Faceva, imparava, scriveva, studiava..ma si osservava da fuori, come una spettatrice passiva di sé stessa. Si vedeva curva sulla scrivania, intenta ad acquisire nozioni che non avrebbero fatto altro che acuire il suo senso di incapacità persistente.
Non è altro che il meccanismo stesso del ricordo: osservare dal di fuori il dispiegarsi nel tempo della propria vicenda esistenziale. Riflettere sulle proprie azioni passate e rendersi conto di quanto siano intangibili, sfuggevoli, effimere. Esiste una differenza tra il vissuto e il non vissuto? In fondo fanno entrambi parte della dimensione psicologica della memoria, che non ha sostanza.
Così Elizabeth guardava sé stessa e appuntava su un taccuino le sue impressioni, come un medico che studia il suo caso clinico e descrive i fenomeni che si presentano ai suoi occhi. Elizabeth appuntava i suoi fenomeni. Elizabeth giudicava sé stessa.

Nessun commento:

Posta un commento