Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog
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martedì 2 giugno 2015

INVANO SI PREGA LA TERRA



Quello che il cielo ha da dire alla terra si sente, ma nessuno
sa ripeterlo. Non c'è chi possa riferire a un altro la
bestemmia del tuono, le bugie della pioggia alle zone aride o
il crepitio sconcio del fulmine nell'aria grassa di nubi.
Quello che il cielo sa dire alla terra non ha testimoni, solo
complici. Era esattamente così che lui si sentiva quella sera,
mentre appoggiato allo stipite di un portone osservava la furia
di quello che sembrava il temporale più violento mai
scoppiato."
Non poteva fare altro che rimanere lì ad aspettare. Si trattava
di una scelta obbligata ma, in qualche modo impenetrabile alla
ragione, sentiva che quella condizione d’attesa era il frutto
non del caso, bensì della necessità. L’inerzia del momento,
sospendendo il tempo e la vita che rimaneva ancora da fare
oltre la tempesta, era un intervallo della sua esistenza, un
vuoto che occorreva colmare. Solitamente a colmare quel vuoto
sopraggiungono i pensieri. E Andrea, stretto nel suo cappotto,
ne fu travolto.

Il tuono, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo il suono. Qualcosa aveva rievocato in lui ricordi sopiti.
Poiché il temporale non accennava a smettere si appoggiò con la
schiena al portone, cercando riparo sotto l’arco di marmo che
lo sovrastava. Mentre stringeva i pugni dentro le tasche del
cappotto si guardava intorno in attesa di un evento previsto,
qualcosa di preannunciato che avrebbe dovuto assomigliare a una
vibrazione del suolo, a una scossa, a un cedimento della crosta
terrestre. Si strinse nelle spalle, abbassò la testa e cominciò
a guardare a terra. Gli occhi si muovevano alla ricerca di una
crepa, di un segno della forza indistruttibile della natura,
risultato dello scontro di volontà indomabili. Ma la terra era
ferma e il pavimento era intatto. Intorno solo la pioggia.
Il tuono, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo il suono. Tolse la mano destra dalla tasca e guardò
l’ora: erano le sette di sera eppure era già buio. L’oscurità
si stava prendendo gioco della sua inquietudine. Intanto la
pioggia scendeva giù così fitta da rendere opaca la luce dei
pochi lampioni lungo la strada; ogni goccia batteva a terra con
violenza, come a voler colpire le strade, le case e tutto ciò
che l’artificio degli uomini aveva costruito, togliendo alla
natura lo spazio che gli era sempre appartenuto. Fulmini e
tuoni rendevano l’aria gravida di un’energia che sembrava
presagire un conflitto tra forze opposte. Le strade deserte, la
cui solitudine era violata soltanto dal passaggio di poche
macchine, avevano la terribile calma di un campo di battaglia
prima del combattimento.

Da quando il terremoto aveva sconvolto la sua esistenza ogni
manifestazione improvvisa della natura rievocava in lui rumori,
volti e macerie. Andrea sentiva addosso il peso di una potenza
incontrastabile che acuiva il suo senso di inadeguatezza. E
sotto quel portone si sentì imprigionato da una notte che aveva
profanato il suo inconscio. L’ostinata razionalità con cui
l’acqua tornava alla terra, rompendo il silenzio con un ritmo
insolito, aveva ordinato i suoi pensieri prima aggrovigliati,
mettendoli in fila, trasformandoli in figure e suoni. Il tempo
era diventato viva presenza. Non servì chiudere gli occhi
perché il ricordo, ruscello tra le rocce, sgorgò
spontaneamente: era la notte del 6 aprile 2009, quando Andrea
sperimentò la sconfitta ancestrale degli uomini, la loro
impotenza di fronte ai misteri, ai tumulti e alle ribellioni
della Terra. Terra che qualcuno chiama madre ma che madre
quella notte non fu.

All'improvviso un fulmine cadde a poche centinaia di metri da
lui e per un attimo il suolo parve tremare. La paura gli
spalancò gli occhi. Le gambe cedettero e tentò di aggrapparsi
allo stipite del portone. Continuava a guardare a terra in
attesa di una crepa, mentre il ruscello riprendeva a scorrere
scavando nella sua dolorosa memoria.

Il grido della terra può essere soltanto udito e invano si
prega affinché un dio accorra a placarlo. Non c’è lotta né
confronto alla pari. L’unica possibilità è affidarsi a
quell'istinto primordiale insito nella natura dell’uomo:
l’istinto alla sopravvivenza.

Un altro tuono, ancora l’urlo della terra.
La scossa, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo il suono.
Occhi aperti, pugni stretti. Scorreva il fiume del ricordo: la
casa dello studente che crollava, il letto che tremava,
l’armadio che si spalancava e i vestiti sparsi a terra, i libri
che cadevano dalle mensole, le mensole che cadevano dai muri,
sotto la scrivania paura, incertezza, poi la crepa, una
voragine sul muro esterno, una via d’uscita, il salto sul
davanzale della finestra, arrampicarsi sulle macerie della
propria casa, arrampicarsi sul cemento infame. La fuga, il
terrore, le persone in strada incredule. In pigiama, una nebbia
avvolgente di fumo e polvere.
Andrea immobile a guardare la sua casa che crollava.

Andrea immobile a guardare la pioggia che cadeva. Suono, tuono,
furia, scossa.

Sopravvivere a un evento catastrofico significa entrare a
contatto con l’imponderabile dimensione della fortuna. Eppure,
ben presto, alla consapevolezza della casualità della propria
salvezza subentra un fardello che piega le spalle e offende la
coscienza, un fardello originato da una mela rubata e chiamato
senso di colpa. Erano passati sei anni ma per Andrea ogni
anniversario non faceva che accrescere la convinzione di una
salvezza profondamente immeritata perché frutto del caso, di
una forza che gioca a dadi con i destini degli uomini. La terra
non perdona, la terra offende, la terra si riprende quello che
è suo. Anche il cemento. Cenere alla cenere.
«Andrea!» si sentì chiamare, «Andrea!». Una voce amica lo
distolse da quei pensieri invadenti. Era Laura, la sua
psicoterapeuta. Lo scrutava da sotto l’ombrello, in attesa di
una risposta.
«Stai bene? Scusami se ti ho fatto aspettare. Sembri
infreddolito».
«Non preoccuparti. Sono arrivato da poco.»
«Forza, entriamo. Non è il caso di rimanere qui fuori» disse
con un sorriso, guardando gli occhi di Andrea ancora fissi a
terra. Prese le chiavi dalla borsa e aprì il portone.
Varcata la soglia Laura accese la luce. Dopo aver superato una
piccola sala d’aspetto con poltroncine blu appoggiate al muro e
un tavolino trasparente al centro della stanza, entrarono nel
suo studio.
«Mi dispiace averti chiamato così all’improvviso. Ho sempre
paura di disturbarti» disse Andrea sinceramente dispiaciuto,
mentre si toglieva il cappotto bagnato. Lo piegò e lo appoggiò
sullo schienale della poltrona.
«Per me non è un problema. Ti ho sempre detto che puoi
chiamarmi ogni volta che ne hai bisogno. Sono qui per questo»
rispose Laura, sperando di cogliere un accenno di sollievo
negli occhi del suo paziente. «Ora siediti così parliamo un
po’».
Andrea raccolse il suo invito e si sedette sulla poltrona
davanti a quella della dottoressa. Non c’era una scrivania a
separarli, perché ogni formalità e distanza era stata superata
ormai da tempo. Iniziò a parlare mentre Laura appuntava su un
taccuino le sue osservazioni.
I loro incontri si svolgevano seguendo un rito che era quasi
sempre lo stesso e che si concludeva solitamente con la
somministrazione di nuovi medicinali. Ma quella sera Laura
aveva avvertito qualcosa di diverso, una sensazione di totale
spaesamento negli occhi di Andrea.
«Hai fatto l’esercizio che ti avevo dato?»
«Ci ho provato,» rispose Andrea «ma scrivere poesie non è da
tutti. Non credo di avere una grande vena poetica.»
«Il dolore è la più grande vena poetica. E’ da lì che nascono i
capolavori. Coraggio, fammi leggere.»
Andrea frugò tra le tasche e le porse un biglietto
stropicciato. Laura lesse tra sé “Guardi con occhi diversi /
Poi ritorni in quell’angolo oscuro / in cui giace il tuo te più
profondo / che forza non ha per guardare lontano.”
Ripiegò il biglietto e disse «Se non ti dispiace, vorrei
tenerlo. Credo che tu stia uscendo da sotto la scrivania.»
«Che vuoi dire?» chiese Andrea sorpreso.
«Che stai guarendo. E che possiamo farcela.»
Andrea non sapeva cosa dire ma la sua espressione tradiva tutta
la sua incredulità. Soltanto pochi minuti prima si era sentito
fragile e piccolo di fronte a una pioggia più violenta del
solito. La guarigione gli sembrava una meta ancora troppo
lontana.
«Non essere così scettico. Stai combattendo per un motivo e io
posso vedere miglioramenti che tu non vedi» lo rimproverò
Laura. Andrea non rispose.
«Prima a cosa stavi pensando?» gli chiese.
«Quando?».
«Mentre mi aspettavi davanti al portone. Avevi gli occhi
persi.»
«Non so a cosa pensavo ma non ero tranquillo. I temporali mi
angosciano.»
«Hai paura?»
Annuì, abbassando ancora una volta gli occhi.
«Guardi sempre a terra. Te ne rendi conto?». Laura voleva
scuoterlo.
Lui esitò a rispondere. Poi disse «La terra mi spaventa ma mi
attrae. Mi ha tolto tutto eppure non faccio altro che
guardarla. A volte ammiro la sua forza.»
«Allora potresti imparare qualcosa da lei.»
Andrea attese qualche secondo, come a voler riavvolgere i
pensieri. Alla fine alzò gli occhi «In realtà penso a mio
padre.»
«Che significa?».
«Mio padre è la mia radice, ciò che mi tiene ancorato alla
terra. Vorrei imparare da lui la sua capacità di reinventarsi
di fronte alle difficoltà e agli ostacoli della vita, la forza
che ha nel rialzarsi, nel lottare e nel riuscire a cambiare
strada, anche se costretto, senza timore del futuro o della
sorte avversa. Senza pentimenti, rimorsi, sensi di colpa.»
Per un attimo rimasero entrambi in silenzio. C’era come una
gioia imperfetta.
«Questa forza lui la chiama “fede”. Io non saprei quale nome
dargli. Eppure so che esiste.»
Raccolse il suo cappotto, salutò Laura e si incamminò verso
l’uscita.
Quello che la terra ha da dire al cielo si sente, ma nessuno sa ripeterlo.

BDA



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