Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog
Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

martedì 17 settembre 2013

Patior

In un deserto d'apatia non c'è luce
che sveli al cuore mio l'enigma nero
piantato nei tuoi occhi come una croce
tra falsità impietose e briciole di vero.

Non più parole solo silenzi stanchi
nel vuoto urlato d'un tempo già sospeso:
solo ricordi dei tuoi migliori anni
a riscaldare uno spirito indifeso.

Gridasti al vento d'esser folle d'amore
e il mare accolse le pene del rifiuto,
ma non c'è pace per un fresco dolore

seppure preghi per ottenere aiuto.
Ora negli occhi soltanto quell'orrore
che rese il battito del cuore un suono muto.

Aristotele

Consegniamo la nostra vita nelle mani degli altri. Come se la felicità fosse un qualcosa di estrinseco, di alieno, indipendente da noi e dalla nostra volontà. Ma come tutte le cose che appartengono alla nostra natura e la caratterizzano, la felicità è ontologica, determina la nostra essenza, il nostro spirito. E' una scintilla dell'anima, un motore del nostro intimo e personale universo.
E' una scelta che determina la nostra esistenza.
Soltanto quando l'Io realizza compiutamente sé stesso, è in grado di porsi in relazione con l'altro, con il Tu, senza perdere la propria identità.

Conoscere sé stessi ed essere consapevoli che l'attuazione (il passaggio dalla potenza all'atto) della nostra felicità è frutto delle nostre e non delle altrui scelte: questo è realizzarsi veramente.

Raffaello Sanzio. La Scuola di Atene

domenica 15 settembre 2013

Emma - Il sogno è lo spazio dell'Anima

Fiori di primavera nell'aria, ma è ancora settembre.
L'estate è ormai finita e la spiaggia, pallida e stanca, attende con ansia il lungo riposo invernale, mentre i gabbiani assaporano finalmente la libertà di affondare le esili zampe sulla sua morbida superficie, ormai libera dalla confusione estiva.
Le onde del mare, divertite, sembrano schernire l'ironico destino degli uomini, costretti ad oscillare tra i contrasti dell'esistenza, in un continuo e incessante moto armonico spesso ostacolato e ravvivato dallo scoglio inevitabile dell'amore. Al di sopra di quella sconfinata distesa l'orizzonte si erge prepotente, scandito dal contorno sfumato delle barche che tornano al porto dopo una lunga giornata di pesca, cariche del premio della loro guerra perpetua contro la natura.
Il sole è ormai calato: come un premuroso seminatore che cosparge la sua terra di semi fecondi e dorati, così quel disco infuocato, fonte inesauribile di vita, semina gemme e diamanti sull'acqua sua gemella, e una striscia brillante, eterna e infinita, taglia a metà l'immensa distesa del mare.
Emma come ogni sera si abbandona docilmente a questo trionfo di vita: è il suo appuntamento quotidiano, irrinunciabile. In quei momenti avverte il suo spirito romantico e sognatore, e si lascia cullare dallo splendore dei colori che si confondono tra il cielo e il mare, dalla placida calma con cui la spiaggia la sera la accompagna nelle sue tenere fantasie: si scioglie nel tempo come una candela accesa nell'aria, si perde tra i colori, in quel senso di sgomento e impotenza che il mare evoca grandioso nell'anima. I suoni artificiali della città giungono sordi alle sue orecchie: ormai la musica che la accompagna è quella delle tonalità delicate del cielo, che creano melodie sempre nuove e inaspettate. Poi scende la notte ed è come un velo incantato che avvolge e accarezza nuvole e case, si sofferma a definire i contorni, nasconde le ombre, risveglia quei desideri e quelle verità celate invece dalla chiara luce del sole. La notte è guardiana del cuore, addormenta il corpo stanco e sveglia l'anima indomabile, trascurata e soppressa durante le affannose ore del giorno. "Siamo io e me", Emma parla a se stessa, "non posso nascondermi di fronte alla notte. Lei sa chi sono, non posso nascondermi". Conosce le sue paure, le debolezze, i suoi peccati. Sa chi ama e chi desidera, sa cosa le manca, afferra i suoi sogni e li rende reali nel tempo di un sospiro, di un sonno, di un tremito inconscio. Non può nascondersi,
di notte.
Si adagia sulla spiaggia e con delicatezza accarezza la sabbia, come se ne volesse coccolare ogni singolo granello. La notte ha ormai nascosto ogni forma e un silenzio denso scende a ricoprire l'intera città. Qua e là dalle finestre è possibile scorgere delle luci ancora accese, simili a lucciole immobili e solitarie. Il sonno prende il posto della veglia, il corpo riposa e l'anima si eleva a protagonista del mondo dei sogni, scrigno dei desideri più nascosti. Gli amori celati prendono vita, gli odi repressi prendono forma e le distanze si accorciano. Emma ascolta il ritmo del suo cuore e gli intervalli del suo respiro, si allunga e poggia la testa a terra: i suoi capelli prendono possesso della sabbia circostante e il suo corpo la modella per trovare un nido pronto ad accogliere le sue membra stanche. Il vento corre leggiadro e l'aria, non più estiva, genera in lei brividi leggeri; pochi istanti ancora, poi le palpebre cominciano a cedere: la bocca è socchiusa e le mani vinte dal loro stesso peso si abbandonano al riposo. Un ultimo respiro, profondo e reale, si insinua nelle pareti del naso, scende giù accarezzando la gola, bacia i polmoni e infine, caldo, abbraccia e avvolge il cuore, appesantito dal dolore dei giorni.

Vicente Romero. La Cantastorie

Labile è il confine tra sogno e realtà..è impercettibile come i sussurri degli amanti, graduale come la fine di un amore. Ma nel sogno l'anima è libera, può uscire dal corpo e prendere vita, mutare come il tempo che fugge, percorrere vie che il reale preclude, seguire l'andamento tortuoso e imprevedibile della fantasia.
Vola lontano il suo spirito, compresso dal banale circolo degli eventi, e coraggioso si affanna nel cercare e sperare l'invisibile, si eleva e guarda il cielo con occhio ingenuo e carico di aspettative, scruta le nuvole, ostacolo alla vista e allo stesso tempo fonte di una necessità ancora più viva di ricerca, di viaggio, di evasione nell'oltre..
Nel sogno Emma esprime e realizza le sue voglie più nascoste. Ha un potere raro: grazie a un dono innato le è concesso rivivere gli amori passati, sublimarli, trasformarli fino a renderli perfetti, unici, ideali; oppure può viverne di nuovi, sperimentando le passioni più estenuanti, vivendo attimi eterni. La realtà è a lei nemica, scoraggia i suoi istinti più puri; i volti della gente sono a lei estranei, spengono le fiamme divampanti delle sue emozioni. Non ha senso cercare nel mondo quello che nessuno ha mai trovato.
E Emma conosce bene la realtà, ne ha passato in rassegna ogni singolo aspetto , ogni sfaccettatura, per potervi trovare un po’ di sé: ma quello che ha visto è solo buio, oscurità, solitudine. La realtà è alienante, ti costringe a partecipare ai suoi meccanismi, ai suoi banali giochi e poi ti lascia da sola, con in mano un pugno di niente.
Così chiude gli occhi, dispiega l'anima e si esilia dal mondo. Pian piano si abbandona alle dolci carezze del sogno e i tremiti inconsci dell'anima la attraversano, denudandola, lasciandola sola con le sue debolezze e le sue speranze.

sabato 14 settembre 2013

Life Bites - L'Essenziale

Un giorno mio padre decise di parlarmi. Mi fece sedere sul tappeto accanto al camino. Incominciò ad attizzare il fuoco e in pochi minuti le fiamme, prima flebili poi sempre più impetuose, gli illuminarono il viso. Alla vista di quel modesto spettacolo pirotecnico le sue rughe si piegarono in un sorriso. Mio padre amava la semplicità della natura ed era affascinato dalle sue forze interne. Si sedette sulla sedia e mi parlò così: "Piccola mia, il desiderio più grande di un padre è quello di entrare nel cuore della propria figlia per lasciarle un segno indelebile e duraturo. Anche da lontano io mi prendo sempre cura di te. Cerco di conoscerti perché per un padre nulla è più incomprensibile e misterioso della creatura che ha generato. Tu amore mio ami osservare il mondo. Lo vedo. Hai degli occhi così profondi che io stesso mi perdo in essi ogni volta che tento di interpretarli. So che cosa cerchi ogni volta, so che cosa tu indaghi nelle cose e nelle persone. Tu vuoi la verità, tu vuoi arrivare al nucleo del mondo, all'essenza dell'universo, al motore della vita. E speri che l'osservazione ti possa aiutare a penetrare i segreti più reconditi dell'esistenza. Ma ciò che tu cerchi non è parte di questa terra. L'ansia di verità che nutri nella tua anima non potrà essere soddisfatta da ciò che è al di fuori di te. Non affannarti dietro a falsi profeti che fanno sfoggio delle loro filosofie.
L'unica verità conoscibile è quella del cuore."

giovedì 12 settembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 1. Intersezioni

Sottoporre l'intera umanità a un rigido codice morale.
Questo Elizabeth aveva imparato sin da bambina.
Costruire uno schema mentale di comportamento e in base a questo giudicare ogni essere vivente, chiunque intendesse anche solo avvicinarsi per scambiare due parole, magari per parlare del tempo o dell'inefficienza dei mezzi di trasporto. Ma per lei tutto ciò era vagamente retorico, fuorviante, trascurabile. Una pianura di banalità e piattume in cui non c'era spazio per la verità né per l'essenza vera di quell'ideale astratto di umanità che perseguiva. Il suo rigido atteggiamento nei confronti dell'altro aveva l'inevitabile conseguenza di abbandonarla a uno stato perenne di solitudine, dove i libri e lo studio sembravano essere le uniche ancore di salvezza in mezzo a un mare di superficialità.
Non fuggiva dal gruppo, riusciva anzi a costruire un'immagine di sé stessa accettabile e piacevole agli occhi degli altri, sforzandosi in tutti i modi di trovarsi a suo agio. Ma nella compagnia percepiva un'indefinibile sensazione di inadeguatezza, di assenza totale dal mondo reale; un ottundimento che la sganciava dalla concretezza per condurla sulle ali di una realtà immaginaria e inafferrabile.
Punto.

"Emma scendi!".
"Arrivo mamma".
"Sono tre ore che ti dico di scendere".
"Lo so, stavo facendo. Dimmi: cosa c'è?".
"Togli i panni dalla lavatrice e stendili fuori.".
"Ma perché sempre io?".
"Su! non fare storie che ho da fare".
Dopo aver tentato un'ultima resistenza, Emma risale le scale sbuffando come un vecchio treno a vapore. Spalanca l'oblò della lavatrice con un gesto ormai meccanico e si inoltra nel mondo variopinto della biancheria, ripensando a tutte le volte in cui si era ritrovata lì, in quel punto esatto, di fronte a quel noioso elettrodomestico che attendeva di essere svuotato proprio da lei per poi ricominciare, ancora una volta, a girare.
A girare.

La cultura le aveva aperto prospettive che mai prima di allora aveva sperimentato. L'orizzonte della conoscenza si ampliava con tale rapidità che ogni volta che giungeva a una nuova acquisizione, ecco che una molteplicità di altre possibili conoscenze le si proponeva dinnanzi agli occhi, turbandola al punto tale da vagheggiare l'idea dell'inutilità dell'apprendimento. Era la ripetizione infinita e inesauribile dell'atto di imparare che la spaventava: come quei gesti che le madri sono solite fare e rifare fino a sera, giorno dopo giorno, senza che mai il loro lavoro giunga a una conclusione definitiva.
Elizabeth apriva l'oblò del mondo, e all'interno di esso scovava una moltitudine di possibilità dentro cui le appariva inevitabile smarrirsi.
Il mare di fronte ai suo occhi e lei...lei un granello di sabbia.
Nel suo quaderno di poesie dalle pagine ingiallite, scrigno delle sue intime verità, scriveva:

Sostengo
l'intollerante peso
di questa ignoranza
quando l'universo
della conoscenza
diventa schiacciante
infinità
di molteplici possibilità
impossibili
da possedere
per mani che stringono
frammenti di briciole
d'impalpabile immensità.
Oscura verità
che lacera l'animo inquieto
dei figli di Ulisse.

A girare.

Si perdeva nelle sue riflessioni.
Elizabeth.
Dolce, Elizabeth.
Smarrita, persa e ritrovata, nella sua poesia.
Leggera, Elizabeth, come una foglia che l'autunno abbandona sul terreno umido.
Cercava risposte e trovava domande. Imparava e pretendeva di sapere ancora, ancora di più. Si sentiva impotente, incapace di dare una definizione ultima alla sua sete di sapere.
Insoddisfatta, Elizabeth.
Questo mondo non ti appartiene.

Ad essere precisi, ogni giorno sua madre avviava la bellezza di quattro lavatrici, tre volte metteva il caffè sul fornello, almeno due caricava la lavastoviglie. Moltiplicando per 365 giorni, si ottiene l’esorbitante cifra di 1460 cestelli riempiti e svuotati, 1095 caffettiere da lavare e 730 giri di piatti, forchette, padelle e coperchi perfettamente lavati e sgrassati.
SI svegliava al mattino e iniziava il suo ciclo rituale: puliva, preparava, spolverava, lucidava, sistemava, smacchiava , cucinava. Un lavoro a tempo pieno senza retribuzione. L’unico compenso, che non chiedeva apertamente ma in cuor suo sperava e invocava, era un poco d’amore.
Il suo lento muoversi da una stanza all’altra aveva un non so che di magico e sacro e al tramonto la luce macchiata di rosso che filtrava dalle finestre investiva la sua figura, irradiandola di un’energia quasi celeste: nell’atto di piegare i panni, Emma intravedeva la sacralità di un gesto antico, tramandato di madre in figlia.  Quella che, a buon ragione, poteva sembrare un’attività come le altre, semplice, banale nella sua meccanicità, per Emma diveniva uno spettacolo da godersi in prima fila, osservando ciascun particolare con cura e ammirazione, e registrando mentalmente la sequenza esatta dei movimenti, consapevole che in essa era racchiuso un segreto imprescindibile e occulto: il segreto della piegatura perfetta.
Anche in un gesto quotidiano come quello, l’amore di sua madre esplodeva in tutte le sue forme. Una vita di sacrifici e rinunce si cristallizzava in quel preciso istante immortale.
Tra le mura di casa, la sua era una vera e propria danza. Dalla sala da pranzo alla cucina, dal bagno alle camere da letto. Si muoveva con tale grazia da sembrare, agli occhi gonfi di stupore di Emma, una ninfa dei boschi intenta a contemplare le bellezze della natura e il focolare familiare diveniva il nido sicuro in cui trovare il significato più intimo dell’esistenza.
Emma chiude gli occhi: ecco il suono delle ciabatte della madre mentre sale le scale. E’ una melodia che ormai le appartiene, conosciuta a memoria come le sue canzoni preferite.


Van Gogh, "Camera da letto"

Forse non si perde il significato delle cose reali, quando queste divengono ripetizioni infinite dell’uguale. Anzi, acquisiscono un valore aggiunto, dato dalla loro innegabile vitalità, dal legame stretto che hanno con la vita vera. Ma quando ciò si trasferisce dal piano dell’oggettività al piano delle idee, delle sovrastrutture, delle speculazioni, il ciclo dell’iterazione determina la paralisi della mente e della volontà.
La sua prospettiva, di Elizabeth, era una miscellanea inestricabile di filosofie e letterature. Negli anni della formazione aveva appreso e assorbito informazioni che erano divenute spunto di ulteriori riflessioni. E ora che il mondo le proponeva come mai prima di allora l’incredibile orizzonte delle alternative esistenziali, reagiva opponendo una sottile forma di apatia nascosta da un’apparente attività, un’esecuzione automatica e meccanica di azioni priva di qualsiasi elemento di consapevolezza. Faceva, imparava, scriveva, studiava..ma si osservava da fuori, come una spettatrice passiva di sé stessa. Si vedeva curva sulla scrivania, intenta ad acquisire nozioni che non avrebbero fatto altro che acuire il suo senso di incapacità persistente.
Non è altro che il meccanismo stesso del ricordo: osservare dal di fuori il dispiegarsi nel tempo della propria vicenda esistenziale. Riflettere sulle proprie azioni passate e rendersi conto di quanto siano intangibili, sfuggevoli, effimere. Esiste una differenza tra il vissuto e il non vissuto? In fondo fanno entrambi parte della dimensione psicologica della memoria, che non ha sostanza.
Così Elizabeth guardava sé stessa e appuntava su un taccuino le sue impressioni, come un medico che studia il suo caso clinico e descrive i fenomeni che si presentano ai suoi occhi. Elizabeth appuntava i suoi fenomeni. Elizabeth giudicava sé stessa.

martedì 3 settembre 2013

Eveline di James Joyce

LA LIBERTA' DEL CUORE NEGATA DALLA PAURA

Stava seduta alla finestra a guardare la sera che invadeva la strada. La testa era appoggiata sulla tenda della finestra e le narici sentivano l’odore del polveroso tessuto di cretonne. Era stanca.
Passava poca gente. Il tizio dell’ultima casa ritornava; sentì i suoi passi battere sul marciapiede di cemento e subito dopo scricchiolare sul sentiero di scorie davanti alle case rosse. Una volta c’era un campo lì in cui si giocava ogni sera con i figli di altra gente. Poi un tizio di Belfast comprò il campo e ci costruì case –non come le loro casette marroni, ma delle case di mattoni con i tetti lucenti. I bambini della strada giocavano in quel campo –i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo zoppo, lei, i suoi fratelli e le sue sorelle.
Ernest, tuttavia, non giocava mai: era tropo grande. Suo padre spesso li andava a cercare fino giù al campo col suo bastone di rovere; ma di solito il piccolo Keogh faceva da vedetta e li chiamava in ritirata quando vedeva suo padre arrivare. Eppure sembravano essere stati felici allora. Suo padre non era così cattivo allora. E poi sua madre era viva. Era tanto tempo fa.
Lei e i suoi fratelli e le sue sorelle erano cresciuti e sua madre era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. Adesso lei stava andando via, come gli altri, per lasciare la sua casa.
La casa! Si guardò intorno alla stanza, rivedendo tutti i suoi oggetti familiari che aveva spolverato una volta alla settimana così tanti anni, chiedendosi da dove cavolo venisse tutta quella polvere. Forse non avrebbe più visto tutti quegli oggetti familiari da cui non si sarebbe mai sognata di separarsi.
Eppure in quegli anni non aveva mai scoperto il nome del prete la cui fotografia ingiallita stava appesa alla parete sopra l’armonium rotto accanto alla stampa a colori dell’ex voto fatto alla Beata Margaret Mary Alacoque. Era stato compagno di scuola si suo padre. Questi ogni volta mostrava la fotografia agli ospiti la passava con una frase a caso:
“E’ a Melboourne adesso.”
Aveva acconsentito ad andar via, a lasciare la sua casa. Era stata una cosa saggia? Aveva cercato di soppesare tutti i lati della questione. A casa sua ad ogni modo aveva un tetto e cibo; aveva intorno tutto ciò che conosceva da tutta la vita. Naturalmente doveva lavorare duro, sia a casa che al lavoro. Cosa avrebbero detto di lei al negozio quando avrebbero scoperto che era scappata via con un ragazzo? Avrebbero detto che era una cretina, forse. Ed il suo posto sarebbe stato coperto da un annuncio. Miss Gavan sarebbe stata contenta. Era sempre stata pungente con lei, specie ogni volta che c’era gente che sentiva.
“Miss Hill, non vede che queste signore aspettano?”
“E svegliatevi, Miss Hill, per favore!”.
Non avrebbe pianto molte lacrime nel lasciare il negozio.
Ma nella sua nuova casa, in una terra lontana e sconosciuta, non sarebbe stato così. Allora sarebbe stata sposata –lei, Eveline. La gente l’avrebbe trattata con rispetto allora. Non sarebbe stata trattata come sua madre era stata trattata. Anche adesso, sebbene avesse diciannove anni e più, si sentiva sotto il pericolo della violenza di suo padre. Sapeva che era stato lui che le aveva fatto venire le palpitazioni.
Quando erano cresciuti lui non era mai stato con lei come lo era con Harry ed Ernest, perché lei era una ragazza, ma più tardi aveva incominciato a minacciarla e a dirle che lo faceva solo per amore di sua madre morta. E lei non aveva nessuno che la proteggesse. Ernest era morto ed Harry che lavorava in una chiesa come decoratore, era quasi sempre fuori da qualche parte nel paese.
E poi le eterne discussioni sui soldi il sabato sera avevano incominciato a stancarla indicibilmente.
Dava sempre la sua intera paga –sette scellini- ed Harry mandava sempre quello che poteva ma il guaio era ricevere i soldi dal padre. Questi diceva sempre che lei sperperava il denaro, che non aveva testa, che non le avrebbe dato i suoi soldi lavorati con sudore per farglieli gettare dalla finestra, e molto di più, perché egli stava di solito proprio male il sabato sera.
Alla fine le avrebbe dato i soldi e le avrebbe chiesto se aveva intenzione di comprare il pranzo della domenica. Allora lei doveva precipitarsi più veloce che poteva a fare la spesa, tenere il suo portamonete di pelle nera stretto in mano mentre si faceva strada a gomitate in mezzo alla folla e tornare a casa col carico delle provviste. Doveva lavorare duro per tenere su la casa e badare a che i due bambini piccoli che erano stati affidati a lei andassero a scuola regolarmente e mangiassero regolarmente. Era un lavoro duro –una vita dura- ma adesso che stava per lasciarla non le sembrava una vita del tutto indesiderabile.
Stava per esplorare un’altra vota con Frank. Frank era molto gentile, virile, dal cuore aperto. Lei stava per andar via con lui con un battello notturno per essere sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires dove lui aveva una casa che l’aspettava. Come ricordava bene la prima volta che lo aveva visto; lui alloggiava in una casa sulla via principale dove lei andava a trovarlo. Sembrava poche settimane fa. Lui stava al cancello, il cappello con la visiera messa all’indietro sulla testa e i capelli scompigliati davanti sul viso abbronzato.
L’aveva portata a vedere La Bohéme e lei si sentiva inebriata mentre era seduta in un’insolita parte del teatro insieme a lui. Lui era totalmente patito di musica e cantava un pochino. La gente sapeva che amoreggiavano e, quando egli cantava della ragazza che amava il marinaio, ella si sentiva appassionatamente confusa. Lui la chiamava Poppens per scherzare. Prima di tutto era stato eccitante per lei avere un ragazzo e poi lui aveva incominciato a piacerle. Faceva sempre dei racconti di paesi lontani. Aveva iniziato come mozzo da suna sterlina al mese su una nave della Allan Line che andava in Canada. LE diceva i nomi delle navi dove era stato e i nomi delle diverse mansioni. Aveva attraversato lo Stretto di Magellano e le aveva raccontato storie sui terribili Paragoni. Le cose gi erano andate bene a Buonos Aires, diceva, ed era arrivato sul vecchio continente solo per una vacanza. Naturalmente il padre aveva scoperto la storia le aveva vietato di avere a che fare con lui.
“La conosco questa razza di marinai”, diceva.
Un giorno egli aveva litigato con Frank dopodiché lei doveva incontrarle il suo amore in segreto.
La sera sprofondò sul viale. Il bianco delle due lettere sul suo grembo diventò indistinto. Una era per Harry; l’altra per suo padre. Ernest era stato il suo preferito ma voleva bene anche ad Harry. Suo padre stava diventando vecchio ultimamente, aveva notato. Le sarebbe mancato. Qualche volta aveva saputo anche essere simpatico. Non molto prima, quando lei era stata a letto per un giorno, le aveva letto una storia di fantasmi e preparato del pane abbrustolito. Un altro giorno, quando la loro mamma era viva, erano andati tutti a fare un picnic sulla collina di Howth. Ricordò suo padre che si era messo il cappellino di sua madre per far ridere i bambini.
Il suo tempo stava volando ma ella continuava a star seduta alla finestra, con la testa appoggiata contro la tenda della finestra, inalando l’odore del cretonne polveroso. Giù per il viale, riusciva a sentire una organetto da strada suonare. Conosceva quella musica straniera che doveva essere arrivata per ricordarle della promessa fatta a sua madre, la promessa di reggere la casa finché poteva. Si ricordò dell’ultima notte della malattia della madre; lei si ritrovava ancora nella chiusa stanza buia all’altra parte della sala e fuori sentì una malinconica musica italiana. All’organista era stato ordinato di andare via e gli avevano sei sterline. Si ricordò di suo padre che ritornando impettito nella stanza dell’ammalata disse:
“Maledetti Italiani! A venire fin qui!”
Mentre pensava la pietosa immagine della vita della madre poggiava il suo incantesimo nel suo essere più profondo –quella vita di comuni sacrifici che finiva nella pazzia finale. Tremava mentre sentiva ancora la voce di sua madre che diceva costantemente con assurda insistenza:
“Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!”

Si alzò in un improvviso impulso di terrore. Fuggire! Fuggire! Frank l’avrebbe salvata. Le avrebbe dato la vita, forse anche l’amore. Ma lei voleva vivere. Perché doveva essere infelice? Aveva il diritto di essere felice. Frank l’avrebbe portata tra le sue braccia, avvolta tra le sue braccia, L’avrebbe salvata.
Stava tra la folla ondeggiante alla stazione di North Wall. Lui la teneva per mano e lei sapeva che le stava parlando, dicendo qualcosa sul viaggio ripetutamente. La stazione era piena di soldati con delle valige marrone. Attraverso le ampie porte dei portici riuscì a vedere la massa scura della nave, accanto al muro della banchina, con gli oblò illimmminati. Non rispose. Si sentiva le guance pallide e fredde e in mezzo alla confusione mentale, pregò Dio di direzionarla, di mostrarle quale era il suo dovere.
La nave soffiò un lungo triste fischio nella nebbia. Se fosse andata l’indomani sarebbe stata in mare con Frank, diretta Buenos Aires. Il loro posto era stato prenotato. Si poteva tirare indietro dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei? La confusione mentale le fece venire la nausea nel corpo ed ella continuava a muovere le labbra in silenziosa, fervente preghiera.
Una campana suonò sul suo cuore. Sentì che lui le afferrava la mano:
“Vieni”.
Tutti i mari del mondo inondarono il cuore. Lui la stava spingendo verso di loro: l’avrebbe annegata. Si aggrappò con entrambe le mani alla ringhiera.
“Vieni”.
No! No! No! Era impossibile. Le sue mani si aggrapparono freneticamente al ferro. In mezzo ai mari mandò un grido di angoscia.
“Eveline! Evvy!”


Lui si spinse oltre la barriera e le gridò di seguirlo. Gli fu urlato di andare avanti ma lui la chiamava ancora. Ella pose il suo viso pallido su di lui, passivo, come un animale inerme. I suoi occhi non gli davano segno di amore o di addio i di riconoscimento.