Friedrich - Wanderer in a Sea of Fog

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mercoledì 18 dicembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 3. Sala d'Aspetto

La Solitudine è una condizione dell’anima che prescinde dal tempo, dallo spazio e dalle relazioni interpersonali. E’ una scelta esistenziale, che trova realizzazione in qualsiasi contesto. Può nascondersi sotto l’apparenza di una socialità mista a condivisione, ma di fatto, tra le righe, sotto i sorrisi e le mani strette, è sempre presente, come una veste di seta leggera che protegge e copre il corpo, preservandolo dalle inquietudini della vita.
C’è chi la considera una forma di autodifesa dal mondo, dalle possibili sofferenze che scaturiscono dall'interazione con gli altri uomini e dallo spettro che ci portiamo dietro sin dai tempi del Paradiso Terrestre: lo spettro dell’abbandono. E allora il timore di essere abbandonati ci trasforma da vittime a carnefici: siamo noi ad abbandonare, per scacciare via quel fantasma orribile, per allontanare da noi la possibilità di rimanere soli, soli a noi stessi. E quanto male seminiamo, in questo sforzo autodistruttivo di preservazione da una presunta sofferenza. Per non sperimentare sulla nostra pelle quel male, lo spargiamo sulla terra, lasciando crescere piante marce e virali. Siamo più codardi di quanto vogliamo ammettere. E la solitudine è la condizione per eccellenza del codardo, colui che sfugge dalla varietà della vita per rifugiarsi nella costante, banale, sempre uguale quotidianità.
Non c’è ruolo più meschino di chi sceglie la via dell’inettitudine.
“Non ragionam di lor, ma guarda e passa”
Il coraggio è il portabandiera di chi lotta per la vita.

Pensava così tanto a qual era il modo giusto di vivere, che non si rendeva conto del tempo che passava..


Era un venerdì pomeriggio quando la madre di Emma le chiese di accompagnarla dal dottore. Dopo aver valutato analiticamente la gamma di scuse che avrebbe potuto imbastire, e non avendone trovata una accettabile (né dalla madre né dal suo buon senso), Emma acconsentì suo malgrado, poiché andare dal dottore era un impegno che avversava in modo particolare. E questa avversione aveva basi scientifiche, perché frutto di due riflessioni fondamentali:
1) la sala d’aspetto del dottore era quasi sempre animata da personaggi insoliti e straordinariamente sgarbati. Talmente insoliti e sgarbati da convincerla a formulare una teoria originale sul legame esistente tra la malattia e l’antipatia.
In poche parole, Emma credeva che tutti i malati fossero naturalmente propensi all'antipatia e che, viceversa, tutti gli antipatici fossero in qualche modo malati. Anzi, riteneva che la malattia più grave del secolo fosse proprio l’antipatia. E la sala d’aspetto del dottore era un microcosmo di malati di antipatia, un atomo di odio e irritazione, un accozzaglia di spiacevoli tipi umani: inspiegabilmente, infatti, quasi tutti gli abitanti del mondo della sala d’aspetto erano adirati con l’umanità intera, anche con l’innocua vecchietta seduta in fondo alla sala (c’è sempre un’innocua vecchietta seduta da qualche parte, una figura omerica: non vede, non sente e non dice), più interessata a leggere l’ultimo scoop sull'edizione ventura di Sanremo, che a occuparsi di quei seminatori di zizzania (sebbene forse la sua indifferenza fosse dovuta maggiormente a un certo difetto d’udito). Erano così incazzati a priori da provocare dispute su qualsiasi cosa: dal posto in cui pretendevano di sedersi, al giornale che pretendevano di leggere, alla visita che pretendevano di fare prima di tutti. Tutte pretese, a loro avviso, legittimate dalla loro appartenenza al Mondo dell’Antipatia.
Possedevano anche un linguaggio caratteristico, grazie al quale comunicavano tra loro, che si fondava esclusivamente su grugniti e suoni disarticolati, accompagnati da gesti di stizza fortemente teatrali, che suscitavano l’imbarazzo generale del pubblico della sala d’aspetto: unico esito possibile di uno spettacolo grottesco allestito da una compagnia di idioti;
2) dal dottore toccava con mano il concetto di attesa. Un concetto che, per tentare di razionalizzarlo, Emma aveva consumato fogli e giornate.

Che cos'è aspettare?
Attesa.
Un tempo sospeso. Un tempo che cerchiamo di colmare con attività che rendano quest'attesa meno trepidante e impaziente. E' un desiderio. Attendiamo per colmare una mancanza.
Mera necessità di colmare un vuoto, una voragine.
Ad esempio la notte andiamo a dormire.
Dormire è aspettare di svegliarsi. La notte passa senza accorgercene. Ci alziamo, facciamo colazione. Aspettiamo che esca il caffè. E in quegli istanti accavallati che intercorrono tra il momento in cui mettiamo la caffettiera sul fornello e il momento in cui versiamo il caffè nella tazzina, noi non facciamo altro che aspettare. Non importa cosa attendiamo, non importa quanto sia importante l'oggetto o la persona per cui indugiamo. Siamo lì, fermi, incuranti del tempo che passa, delle lancette che scorrono inesorabili a fagocitare un altro giro d’orologio. Desideriamo completarci.
Quel caffè, una volta uscito, ci aiuterà a comprendere tutto e darà un significato ultimo a tutte le attese della nostra vita. Che illusione.
Aspettare. Essere pazienti. Chi è paziente, aspetta. In sala d'aspetto, si aspetta. Si aspetta di essere visitati, di essere curati. Forse per questo nelle sale d’aspetto le persone sono così impazienti.
Se accumulassimo tutti i minuti, i giorni, le ore, gli anni passati ad aspettare qualcosa o qualcuno, avremmo la possibilità di vivere un'altra vita.
Di amare qualcun altro.
Di amarci un po' di più.

Aspettare è l'illusione di sospendere la vita.
E la vita è tutto ciò che accade mentre noi continuiamo ostinatamente ad aspettare.

sabato 14 dicembre 2013

Prove di Perfezione - Cap 2. Vivere

Amava vivere in quella casa, una villetta indipendente in un paese lontano dalla frenesia della città. Riconosceva come suo l'ambiente naturale in cui era immersa, trovando piacere e conforto nell'incessante canto degli uccelli che al mattino la svegliavano, iniziandola alla giornata con le loro armonie sempre varie, o nel lento strisciare del vento che muoveva le foglie voluminose del ciliegio.
Sin da piccola coglieva il significato nascosto in quella vita appartata, idilliaca, in cui la natura e l'amore della sua famiglia costituivano le solide fondamenta sopra le quali formare il suo spirito e la sua personalità.

Non avrebbe saputo immaginare un’esistenza diversa da quella, ma il futuro era per lei un grande calderone di incertezze e interrogativi.
Si svegliava ogni mattina con la convinzione fittizia che sarebbe stato sempre quello il suo unico risveglio.
Forse era paura, la sua.
Paura del mondo contaminato dalla falsità.

Conclusi gli anni della scuola media, fu costretta a proseguire i suoi studi in città. Ogni mattina, alle sette, partiva col padre per andare a scuola.
Ritratto di vita. Il profumo di caffè latte appena fatto, la madre che spalanca le persiane e i raggi del sole che inondano di luce ogni angolo della cameretta, disturbando i suoi occhi affaticati dal sonno. Comincia un altro giorno. Emma si alza, si veste, si lava e fa colazione. Suo padre è in macchina che la attende. Cartella in spalla e si parte. Dal finestrino il suo sguardo curioso osserva i paesaggi conosciuti: luci, colori, alberi, personaggi, sono sempre gli stessi, ma con un giorno in più da sommare alla vita. C’è sempre la stessa vecchietta che attende l’autobus sul ciglio della strada e c’è sempre il pensiero che “certo! sarebbe meglio se mettessero delle panchine per le persone che aspettano”. Del resto la vita è soprattutto attesa. Tanto vale stare comodi.
Anche la strada è sempre la stessa, con le sue buche e i suoi dossi...e il rumore prevedibile dei tombini calpestati dalle ruote che girano.
E girano.


Le persone sembrano voler dimenticare quanto sia fragile la vita.
La verità è che un uomo, un uomo qualsiasi, può spegnersi e affliggersi di fronte alla quotidianità, all'incessante e circolare ripetersi di azioni ed emozioni, al punto tale da svalutare lo stesso concetto di esistenza.
Alcuni ci riflettono, altri se ne vogliono dimenticare. E certamente quest’ultimo atteggiamento non è da biasimare, dal momento che tante menti geniali giunsero alla conclusione che la mancanza di consapevolezza può esorcizzare l’infelicità. Un po’  come accade negli animali.
Elizabeth conosceva bene queste filosofie, se ne appropriava e si perdeva nella loro indeterminatezza.
Percorreva vie che il reale avrebbe voluto precluderle.
Scrutava il mondo in cerca di sé. Passeggiava per strada e osservava le case, e delle case osservava le finestre, e tra tutte le finestre si soffermava su quelle con le luci accese, mentre con la mente cercava di immaginare quale vita stesse animando quelle stanze illuminate: quale famiglia stesse mangiando a tavola, quale donna stesse aspettando che il suo uomo tornasse dal lavoro, quale nonna stesse guardando le foto del suo defunto marito. In macchina si chiedeva dove corressero, dove andassero sempre tutte quelle scatole a quattro ruote, quali e quante vite trasportassero. E quando vedeva un autobus passare, il filo dei suoi pensieri si intrecciava a tal punto che nemmeno lei riusciva a trovarne un senso. Quante esistenze che si muovevano dentro un unico mezzo di trasporto, quanti bambini andavano a scuola, quante madri a fare la spesa, quanti uomini a lavoro e quanti giovani all'università, con il quaderno degli appunti in mano e la tracolla sulla spalla. Cosa muoveva tutte quelle vite umane? Dove andavano, cosa cercavano tutti, incessantemente? Cosa li spingeva a vivere consapevoli dell’insensatezza di vivere?
Poi un uomo.
Seduto su una panchina.
Un girasole in mano.
Arriva una donna.
Lo abbraccia.
Lo bacia.
Lui le porge il girasole.
Lei sorride, lo prende per mano.
Vanno via.
La luce dei lampioni sembra illuminare i loro volti.

Lì, in quel preciso istante… la vita scrive la sua più segreta poesia.

Andava a scuola come tutti i ragazzi della sua età. Inseguiva sogni, come tutti. Amava, come tutti.
E nel frattempo sperava di riuscire un giorno a sfuggire dall'ombra opprimente dell’anonimato, della mediocrità, dell’abitudine.
Così fuggì, fuggì dal piccolo mondo in cui era nata e cresciuta.

Fuggì nella grande città.