Sottoporre l'intera
umanità a un rigido codice morale.
Questo Elizabeth aveva
imparato sin da bambina.
Costruire uno
schema mentale di comportamento e in base a questo giudicare ogni essere
vivente, chiunque intendesse anche solo avvicinarsi per scambiare due parole,
magari per parlare del tempo o dell'inefficienza dei mezzi di trasporto. Ma per
lei tutto ciò era vagamente retorico, fuorviante, trascurabile. Una pianura di
banalità e piattume in cui non c'era spazio per la verità né per l'essenza vera
di quell'ideale astratto di umanità che perseguiva. Il suo rigido atteggiamento
nei confronti dell'altro aveva l'inevitabile conseguenza di abbandonarla a uno
stato perenne di solitudine, dove i libri e lo studio sembravano essere le
uniche ancore di salvezza in mezzo a un mare di superficialità.
Non fuggiva dal
gruppo, riusciva anzi a costruire un'immagine di sé stessa accettabile e
piacevole agli occhi degli altri, sforzandosi in tutti i modi di trovarsi a suo
agio. Ma nella compagnia percepiva un'indefinibile sensazione di inadeguatezza,
di assenza totale dal mondo reale; un ottundimento che la sganciava dalla
concretezza per condurla sulle ali di una realtà immaginaria e inafferrabile.
Punto.
"Emma scendi!".
"Arrivo mamma".
"Sono tre ore che ti dico di scendere".
"Lo so, stavo facendo. Dimmi: cosa c'è?".
"Togli i panni dalla lavatrice e stendili
fuori.".
"Ma perché sempre io?".
"Su! non fare storie che ho da fare".
Dopo aver tentato un'ultima resistenza, Emma risale le scale sbuffando
come un vecchio treno a vapore. Spalanca l'oblò della lavatrice con un gesto
ormai meccanico e si inoltra nel mondo variopinto della biancheria, ripensando
a tutte le volte in cui si era ritrovata lì, in quel punto esatto, di fronte a
quel noioso elettrodomestico che attendeva di essere svuotato proprio da lei per
poi ricominciare, ancora una volta, a girare.
A girare.
La cultura le aveva
aperto prospettive che mai prima di allora aveva sperimentato. L'orizzonte
della conoscenza si ampliava con tale rapidità che ogni volta che giungeva a
una nuova acquisizione, ecco che una molteplicità di altre possibili conoscenze
le si proponeva dinnanzi agli occhi, turbandola al punto tale da vagheggiare
l'idea dell'inutilità dell'apprendimento. Era la ripetizione infinita e
inesauribile dell'atto di imparare che la spaventava: come quei gesti che le
madri sono solite fare e rifare fino a sera, giorno dopo giorno, senza che mai
il loro lavoro giunga a una conclusione definitiva.
Elizabeth apriva l'oblò
del mondo, e all'interno di esso scovava una moltitudine di possibilità dentro
cui le appariva inevitabile smarrirsi.
Il mare di fronte
ai suo occhi e lei...lei un granello di sabbia.
Nel suo quaderno di
poesie dalle pagine ingiallite, scrigno delle sue intime verità, scriveva:
Sostengo
l'intollerante peso
di questa ignoranza
quando l'universo
della conoscenza
diventa
schiacciante
infinità
di molteplici
possibilità
impossibili
da possedere
per mani che
stringono
frammenti di
briciole
d'impalpabile immensità.
Oscura verità
che lacera l'animo
inquieto
dei figli di
Ulisse.
A girare.
Si perdeva nelle
sue riflessioni.
Elizabeth.
Dolce, Elizabeth.
Smarrita, persa e
ritrovata, nella sua poesia.
Leggera, Elizabeth,
come una foglia che l'autunno abbandona sul terreno umido.
Cercava risposte e
trovava domande. Imparava e pretendeva di sapere ancora, ancora di più. Si
sentiva impotente, incapace di dare una definizione ultima alla sua sete di
sapere.
Insoddisfatta, Elizabeth.
Questo mondo non ti
appartiene.
Ad essere precisi, ogni giorno sua madre avviava la
bellezza di quattro lavatrici, tre volte metteva il caffè sul fornello, almeno
due caricava la lavastoviglie. Moltiplicando per 365 giorni, si ottiene
l’esorbitante cifra di 1460 cestelli riempiti e svuotati, 1095 caffettiere da
lavare e 730 giri di piatti, forchette, padelle e coperchi perfettamente lavati e sgrassati.
SI svegliava al mattino e iniziava il suo ciclo rituale: puliva, preparava,
spolverava, lucidava, sistemava, smacchiava , cucinava. Un lavoro a tempo pieno
senza retribuzione. L’unico compenso, che non chiedeva apertamente ma in cuor
suo sperava e invocava, era un poco d’amore.
Il suo lento muoversi da una stanza all’altra aveva un
non so che di magico e sacro e al tramonto la luce macchiata di rosso che
filtrava dalle finestre investiva la sua figura, irradiandola di un’energia
quasi celeste: nell’atto di piegare i panni, Emma intravedeva la sacralità di
un gesto antico, tramandato di madre in figlia. Quella che, a buon ragione, poteva sembrare
un’attività come le altre, semplice, banale nella sua meccanicità, per Emma diveniva
uno spettacolo da godersi in prima fila, osservando ciascun particolare con
cura e ammirazione, e registrando mentalmente la sequenza esatta dei movimenti,
consapevole che in essa era racchiuso un segreto imprescindibile e occulto: il
segreto della piegatura perfetta.
Anche in un gesto quotidiano come quello, l’amore di sua
madre esplodeva in tutte le sue forme. Una vita di sacrifici e rinunce si
cristallizzava in quel preciso istante immortale.
Tra le mura di casa, la sua era una vera e propria danza.
Dalla sala da pranzo alla cucina, dal bagno alle camere da letto. Si muoveva
con tale grazia da sembrare, agli occhi gonfi di stupore di Emma, una ninfa dei
boschi intenta a contemplare le bellezze della natura e il focolare familiare diveniva
il nido sicuro in cui trovare il significato più intimo dell’esistenza.
Emma chiude gli occhi: ecco il suono delle ciabatte della
madre mentre sale le scale. E’ una melodia che ormai le appartiene, conosciuta
a memoria come le sue canzoni preferite.
Van Gogh, "Camera da letto" |
Forse non si perde
il significato delle cose reali, quando queste divengono ripetizioni infinite
dell’uguale. Anzi, acquisiscono un valore aggiunto, dato dalla loro innegabile
vitalità, dal legame stretto che hanno con la vita vera. Ma quando ciò si
trasferisce dal piano dell’oggettività al piano delle idee, delle
sovrastrutture, delle speculazioni, il ciclo dell’iterazione determina la
paralisi della mente e della volontà.
La sua prospettiva,
di Elizabeth, era una miscellanea inestricabile di filosofie e letterature.
Negli anni della formazione aveva appreso e assorbito informazioni che erano
divenute spunto di ulteriori riflessioni. E ora che il mondo le proponeva come
mai prima di allora l’incredibile orizzonte delle alternative esistenziali,
reagiva opponendo una sottile forma di apatia nascosta da un’apparente attività,
un’esecuzione automatica e meccanica di azioni priva di qualsiasi elemento di
consapevolezza. Faceva, imparava, scriveva, studiava..ma si osservava da fuori,
come una spettatrice passiva di sé stessa. Si vedeva curva sulla scrivania,
intenta ad acquisire nozioni che non avrebbero fatto altro che acuire il suo
senso di incapacità persistente.
Non è altro
che il meccanismo stesso del ricordo: osservare dal di fuori il dispiegarsi nel
tempo della propria vicenda esistenziale. Riflettere sulle proprie azioni
passate e rendersi conto di quanto siano intangibili, sfuggevoli, effimere.
Esiste una differenza tra il vissuto e il non vissuto? In fondo fanno entrambi
parte della dimensione psicologica della memoria, che non ha sostanza.
Così Elizabeth guardava
sé stessa e appuntava su un taccuino le sue impressioni, come un medico che
studia il suo caso clinico e descrive i fenomeni che si presentano ai suoi
occhi. Elizabeth appuntava i suoi fenomeni. Elizabeth giudicava sé stessa.
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