“Quello
che il cielo ha da dire alla terra si sente, ma nessuno
sa
ripeterlo. Non c'è chi possa riferire a un altro la
bestemmia
del tuono, le bugie della pioggia alle zone aride o
il
crepitio sconcio del fulmine nell'aria grassa di nubi.
Quello
che il cielo sa dire alla terra non ha testimoni, solo
complici.
Era esattamente così che lui si sentiva quella sera,
mentre
appoggiato allo stipite di un portone osservava la furia
di
quello che sembrava il temporale più violento mai
scoppiato."
Non
poteva fare altro che rimanere lì ad aspettare. Si trattava
di
una scelta obbligata ma, in qualche modo impenetrabile alla
ragione,
sentiva che quella condizione d’attesa era il frutto
non
del caso, bensì della necessità. L’inerzia del momento,
sospendendo
il tempo e la vita che rimaneva ancora da fare
oltre
la tempesta, era un intervallo della sua esistenza, un
vuoto
che occorreva colmare. Solitamente a colmare quel vuoto
sopraggiungono
i pensieri. E Andrea, stretto nel suo cappotto,
ne
fu travolto.
Il
tuono, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo
il suono. Qualcosa aveva rievocato in lui ricordi sopiti.
Poiché
il temporale non accennava a smettere si appoggiò con la
schiena
al portone, cercando riparo sotto l’arco di marmo che
lo
sovrastava. Mentre stringeva i pugni dentro le tasche del
cappotto
si guardava intorno in attesa di un evento previsto,
qualcosa
di preannunciato che avrebbe dovuto assomigliare a una
vibrazione
del suolo, a una scossa, a un cedimento della crosta
terrestre.
Si strinse nelle spalle, abbassò la testa e cominciò
a
guardare a terra. Gli occhi si muovevano alla ricerca di una
crepa,
di un segno della forza indistruttibile della natura,
risultato
dello scontro di volontà indomabili. Ma la terra era
ferma
e il pavimento era intatto. Intorno solo la pioggia.
Il
tuono, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo
il suono. Tolse la mano destra dalla tasca e guardò
l’ora:
erano le sette di sera eppure era già buio. L’oscurità
si
stava prendendo gioco della sua inquietudine. Intanto la
pioggia
scendeva giù così fitta da rendere opaca la luce dei
pochi
lampioni lungo la strada; ogni goccia batteva a terra con
violenza,
come a voler colpire le strade, le case e tutto ciò
che
l’artificio degli uomini aveva costruito, togliendo alla
natura
lo spazio che gli era sempre appartenuto. Fulmini e
tuoni
rendevano l’aria gravida di un’energia che sembrava
presagire
un conflitto tra forze opposte. Le strade deserte, la
cui
solitudine era violata soltanto dal passaggio di poche
macchine,
avevano la terribile calma di un campo di battaglia
prima
del combattimento.
Da
quando il terremoto aveva sconvolto la sua esistenza ogni
manifestazione
improvvisa della natura rievocava in lui rumori,
volti
e macerie. Andrea sentiva addosso il peso di una potenza
incontrastabile
che acuiva il suo senso di inadeguatezza. E
sotto
quel portone si sentì imprigionato da una notte che aveva
profanato
il suo inconscio. L’ostinata razionalità con cui
l’acqua
tornava alla terra, rompendo il silenzio con un ritmo
insolito,
aveva ordinato i suoi pensieri prima aggrovigliati,
mettendoli
in fila, trasformandoli in figure e suoni. Il tempo
era
diventato viva presenza. Non servì chiudere gli occhi
perché
il ricordo, ruscello tra le rocce, sgorgò
spontaneamente:
era la notte del 6 aprile 2009, quando Andrea
sperimentò
la sconfitta ancestrale degli uomini, la loro
impotenza
di fronte ai misteri, ai tumulti e alle ribellioni
della
Terra. Terra che qualcuno chiama madre ma che madre
quella
notte non fu.
All'improvviso un fulmine cadde a poche centinaia di metri da
lui
e per un attimo il suolo parve tremare. La paura gli
spalancò
gli occhi. Le gambe cedettero e tentò di aggrapparsi
allo
stipite del portone. Continuava a guardare a terra in
attesa
di una crepa, mentre il ruscello riprendeva a scorrere
scavando
nella sua dolorosa memoria.
Il
grido della terra può essere soltanto udito e invano si
prega
affinché un dio accorra a placarlo. Non c’è lotta né
confronto
alla pari. L’unica possibilità è affidarsi a
quell'istinto primordiale insito nella natura dell’uomo:
l’istinto
alla sopravvivenza.
Un
altro tuono, ancora l’urlo della terra.
La
scossa, la furia, il suono assordante, il silenzio poi di
nuovo
il suono.
Occhi
aperti, pugni stretti. Scorreva il fiume del ricordo: la
casa
dello studente che crollava, il letto che tremava,
l’armadio
che si spalancava e i vestiti sparsi a terra, i libri
che
cadevano dalle mensole, le mensole che cadevano dai muri,
sotto
la scrivania paura, incertezza, poi la crepa, una
voragine
sul muro esterno, una via d’uscita, il salto sul
davanzale
della finestra, arrampicarsi sulle macerie della
propria
casa, arrampicarsi sul cemento infame. La fuga, il
terrore,
le persone in strada incredule. In pigiama, una nebbia
avvolgente
di fumo e polvere.
Andrea
immobile a guardare la sua casa che crollava.
Andrea
immobile a guardare la pioggia che cadeva. Suono, tuono,
furia,
scossa.
Sopravvivere
a un evento catastrofico significa entrare a
contatto
con l’imponderabile dimensione della fortuna. Eppure,
ben
presto, alla consapevolezza della casualità della propria
salvezza
subentra un fardello che piega le spalle e offende la
coscienza,
un fardello originato da una mela rubata e chiamato
senso
di colpa. Erano passati sei anni ma per Andrea ogni
anniversario
non faceva che accrescere la convinzione di una
salvezza
profondamente immeritata perché frutto del caso, di
una
forza che gioca a dadi con i destini degli uomini. La terra
non
perdona, la terra offende, la terra si riprende quello che
è
suo. Anche il cemento. Cenere alla cenere.
«Andrea!»
si sentì chiamare, «Andrea!». Una voce amica lo
distolse
da quei pensieri invadenti. Era Laura, la sua
psicoterapeuta.
Lo scrutava da sotto l’ombrello, in attesa di
una
risposta.
«Stai
bene? Scusami se ti ho fatto aspettare. Sembri
infreddolito».
«Non
preoccuparti. Sono arrivato da poco.»
«Forza,
entriamo. Non è il caso di rimanere qui fuori» disse
con
un sorriso, guardando gli occhi di Andrea ancora fissi a
terra.
Prese le chiavi dalla borsa e aprì il portone.
Varcata
la soglia Laura accese la luce. Dopo aver superato una
piccola
sala d’aspetto con poltroncine blu appoggiate al muro e
un
tavolino trasparente al centro della stanza, entrarono nel
suo
studio.
«Mi
dispiace averti chiamato così all’improvviso. Ho sempre
paura
di disturbarti» disse Andrea sinceramente dispiaciuto,
mentre
si toglieva il cappotto bagnato. Lo piegò e lo appoggiò
sullo
schienale della poltrona.
«Per
me non è un problema. Ti ho sempre detto che puoi
chiamarmi
ogni volta che ne hai bisogno. Sono qui per questo»
rispose
Laura, sperando di cogliere un accenno di sollievo
negli
occhi del suo paziente. «Ora siediti così parliamo un
po’».
Andrea
raccolse il suo invito e si sedette sulla poltrona
davanti
a quella della dottoressa. Non c’era una scrivania a
separarli,
perché ogni formalità e distanza era stata superata
ormai
da tempo. Iniziò a parlare mentre Laura appuntava su un
taccuino
le sue osservazioni.
I
loro incontri si svolgevano seguendo un rito che era quasi
sempre
lo stesso e che si concludeva solitamente con la
somministrazione
di nuovi medicinali. Ma quella sera Laura
aveva
avvertito qualcosa di diverso, una sensazione di totale
spaesamento
negli occhi di Andrea.
«Hai
fatto l’esercizio che ti avevo dato?»
«Ci
ho provato,» rispose Andrea «ma scrivere poesie non è da
tutti.
Non credo di avere una grande vena poetica.»
«Il
dolore è la più grande vena poetica. E’ da lì che nascono i
capolavori.
Coraggio, fammi leggere.»
Andrea
frugò tra le tasche e le porse un biglietto
stropicciato.
Laura lesse tra sé “Guardi
con occhi diversi /
Poi
ritorni in quell’angolo oscuro / in cui giace il tuo te più
profondo
/ che forza non ha per guardare lontano.”
Ripiegò
il biglietto e disse «Se non ti dispiace, vorrei
tenerlo.
Credo che tu stia uscendo da sotto la scrivania.»
«Che
vuoi dire?» chiese Andrea sorpreso.
«Che
stai guarendo. E che possiamo farcela.»
Andrea
non sapeva cosa dire ma la sua espressione tradiva tutta
la
sua incredulità. Soltanto pochi minuti prima si era sentito
fragile
e piccolo di fronte a una pioggia più violenta del
solito.
La guarigione gli sembrava una meta ancora troppo
lontana.
«Non
essere così scettico. Stai combattendo per un motivo e io
posso
vedere miglioramenti che tu non vedi» lo rimproverò
Laura.
Andrea non rispose.
«Prima
a cosa stavi pensando?» gli chiese.
«Quando?».
«Mentre
mi aspettavi davanti al portone. Avevi gli occhi
persi.»
«Non
so a cosa pensavo ma non ero tranquillo. I temporali mi
angosciano.»
«Hai
paura?»
Annuì,
abbassando ancora una volta gli occhi.
«Guardi
sempre a terra. Te ne rendi conto?». Laura voleva
scuoterlo.
Lui
esitò a rispondere. Poi disse «La terra mi spaventa ma mi
attrae.
Mi ha tolto tutto eppure non faccio altro che
guardarla.
A volte ammiro la sua forza.»
«Allora
potresti imparare qualcosa da lei.»
Andrea
attese qualche secondo, come a voler riavvolgere i
pensieri.
Alla fine alzò gli occhi «In realtà penso a mio
padre.»
«Che
significa?».
«Mio
padre è la mia radice, ciò che mi tiene ancorato alla
terra.
Vorrei imparare da lui la sua capacità di reinventarsi
di
fronte alle difficoltà e agli ostacoli della vita, la forza
che
ha nel rialzarsi, nel lottare e nel riuscire a cambiare
strada,
anche se costretto, senza timore del futuro o della
sorte
avversa. Senza pentimenti, rimorsi, sensi di colpa.»
Per
un attimo rimasero entrambi in silenzio. C’era come una
gioia
imperfetta.
«Questa
forza lui la chiama “fede”. Io non saprei quale nome
dargli.
Eppure so che esiste.»
Raccolse
il suo cappotto, salutò Laura e si incamminò verso
l’uscita.
Quello
che la terra ha da dire al cielo si sente, ma nessuno sa ripeterlo.