La Solitudine è una
condizione dell’anima che prescinde dal tempo, dallo spazio e dalle relazioni
interpersonali. E’ una scelta esistenziale, che trova realizzazione in
qualsiasi contesto. Può nascondersi sotto l’apparenza di una socialità mista a
condivisione, ma di fatto, tra le righe, sotto i sorrisi e le mani strette, è
sempre presente, come una veste di seta leggera che protegge e copre il corpo,
preservandolo dalle inquietudini della vita.
C’è chi la considera
una forma di autodifesa dal mondo, dalle possibili sofferenze che scaturiscono
dall'interazione con gli altri uomini e dallo spettro che ci portiamo dietro
sin dai tempi del Paradiso Terrestre: lo spettro dell’abbandono. E allora il
timore di essere abbandonati ci trasforma da vittime a carnefici: siamo noi ad
abbandonare, per scacciare via quel fantasma orribile, per allontanare da noi
la possibilità di rimanere soli, soli a noi stessi. E quanto male seminiamo, in
questo sforzo autodistruttivo di preservazione da una presunta sofferenza. Per
non sperimentare sulla nostra pelle quel male, lo spargiamo sulla terra,
lasciando crescere piante marce e virali. Siamo più codardi di quanto vogliamo
ammettere. E la solitudine è la condizione per eccellenza del codardo, colui
che sfugge dalla varietà della vita per rifugiarsi nella costante, banale,
sempre uguale quotidianità.
Non c’è ruolo più
meschino di chi sceglie la via dell’inettitudine.
“Non ragionam di lor,
ma guarda e passa”
Il coraggio è il portabandiera
di chi lotta per la vita.
Pensava così tanto a qual era il modo giusto di vivere,
che non si rendeva conto del tempo che passava..
Era un venerdì pomeriggio quando la madre di Emma le chiese
di accompagnarla dal dottore. Dopo aver valutato analiticamente la gamma di
scuse che avrebbe potuto imbastire, e non avendone trovata una accettabile (né
dalla madre né dal suo buon senso), Emma acconsentì suo malgrado, poiché andare
dal dottore era un impegno che avversava in modo particolare. E questa avversione
aveva basi scientifiche, perché frutto di due riflessioni fondamentali:
1) la sala d’aspetto del dottore era quasi sempre animata da
personaggi insoliti e straordinariamente sgarbati. Talmente insoliti e sgarbati
da convincerla a formulare una teoria originale sul legame esistente tra la
malattia e l’antipatia.
In poche parole, Emma credeva che tutti i malati fossero
naturalmente propensi all'antipatia e che, viceversa, tutti gli antipatici
fossero in qualche modo malati. Anzi, riteneva che la malattia più grave del
secolo fosse proprio l’antipatia. E la sala d’aspetto del dottore era un
microcosmo di malati di antipatia, un atomo di odio e irritazione, un
accozzaglia di spiacevoli tipi umani: inspiegabilmente, infatti, quasi tutti
gli abitanti del mondo della sala d’aspetto erano adirati con l’umanità intera,
anche con l’innocua vecchietta seduta in fondo alla sala (c’è sempre un’innocua
vecchietta seduta da qualche parte, una figura omerica: non vede, non sente e
non dice), più interessata a leggere l’ultimo scoop sull'edizione ventura di
Sanremo, che a occuparsi di quei seminatori di zizzania (sebbene forse la sua
indifferenza fosse dovuta maggiormente a un certo difetto d’udito). Erano così
incazzati a priori da provocare dispute su qualsiasi cosa: dal posto in cui
pretendevano di sedersi, al giornale che pretendevano di leggere, alla visita
che pretendevano di fare prima di tutti. Tutte pretese, a loro avviso,
legittimate dalla loro appartenenza al Mondo dell’Antipatia.
Possedevano anche un linguaggio caratteristico, grazie al
quale comunicavano tra loro, che si fondava esclusivamente su grugniti e suoni
disarticolati, accompagnati da gesti di stizza fortemente teatrali, che
suscitavano l’imbarazzo generale del pubblico della sala d’aspetto: unico esito
possibile di uno spettacolo grottesco allestito da una compagnia di idioti;
2) dal dottore toccava con mano il concetto di attesa. Un
concetto che, per tentare di razionalizzarlo, Emma aveva consumato fogli e
giornate.
Che cos'è aspettare?
Attesa.
Un tempo sospeso. Un tempo che cerchiamo di colmare con
attività che rendano quest'attesa meno trepidante e impaziente. E' un
desiderio. Attendiamo per colmare una mancanza.
Mera necessità di colmare un vuoto, una voragine.
Ad esempio la notte andiamo a dormire.
Dormire è aspettare di svegliarsi. La notte passa senza
accorgercene. Ci alziamo, facciamo colazione. Aspettiamo che esca il caffè. E
in quegli istanti accavallati che intercorrono tra il momento in cui mettiamo
la caffettiera sul fornello e il momento in cui versiamo il caffè nella
tazzina, noi non facciamo altro che aspettare. Non importa cosa attendiamo, non
importa quanto sia importante l'oggetto o la persona per cui indugiamo. Siamo
lì, fermi, incuranti del tempo che passa, delle lancette che scorrono
inesorabili a fagocitare un altro giro d’orologio. Desideriamo completarci.
Quel caffè, una volta uscito, ci aiuterà a comprendere
tutto e darà un significato ultimo a tutte le attese della nostra vita. Che
illusione.
Aspettare. Essere pazienti. Chi è paziente, aspetta. In
sala d'aspetto, si aspetta. Si aspetta di essere visitati, di essere curati.
Forse per questo nelle sale d’aspetto le persone sono così impazienti.
Se accumulassimo tutti i minuti, i giorni, le ore, gli
anni passati ad aspettare qualcosa o qualcuno, avremmo la possibilità di vivere
un'altra vita.
Di amare qualcun altro.
Di amarci un po' di più.
Aspettare è l'illusione di sospendere la vita.
E la vita è tutto ciò
che accade mentre noi continuiamo ostinatamente ad aspettare.